Premetto che Michael Haneke è uno dei miei registi preferiti, se non il favorito per eccellenza. Premetto che tutti i suoi film, a partire da questo Amour, vincitore sui lidi cannensi della Palma d'oro, rispecchiano un'idea di cinema che, visivamente, strutturalmente, esteticamente, è sempre stata coerente con se stessa e mai si è abbandonata alle sirene del mercato.
Amour (nelle sale italiane dal 25 ottobre, locandina in apertura) si apre con una abitazione sprangata e dalla quale proviene un cattivo odore. È forse per questo che i vicini hanno chiamato i vigili del fuoco, che non ricevendo risposta dagli inquilini, sfondano l'uscio e fanno irruzione in una casa sorprendentemente vuota: le finestre sono spalancate, l'aria soffia tra i tendaggi, il cadavere di una vecchia, rattrappito sul letto coniugale, circondato di fiori ormai appassiti, accoglie gli inaspettati visitatori con il suo desolante fetore di decomposizione. Del marito non c'è traccia.
La storia è quella di una coppia di anziani insegnanti di musica ormai in pensione, Georges e Anne (Jean-Luis Trintignant e Emanuelle Riva), che vivono in uno spazioso appartamento parigino, trascorrono le serate ascoltando musica classica, si coricano leggendo un buon libro e prima di addormentarsi riescono ancora a dirsi quelle parole che assai di rado si scoprono in bocca agli anziani. Un giorno i due stanno facendo colazione, Anne ha un ictus, viene operata alla carotide ma l'operazione va male e quando la donna è dimessa dal nosocomio, torna a casa su una sedia a rotelle, la metà destra del corpo quasi completamente paralizzata. Georges se ne prende amorevolmente cura, l'aiuta a spogliarsi e vestirsi, prepara la cena, si occupa della casa, fa di tutto perché la moglie non percepisca il peso gravoso ma ineluttabile della vecchiaia e della morte. È un'illusione, la sua, presto destinata a infrangersi quando le condizioni di Anne, anziché stabilizzarsi, peggiorano di giorno in giorno, di settimana in settimana, fino al momento in cui dell'altrimenti vitale, elegante e acculturata insegnante di musica non resta che una larva umana, rattrappita e paralitica, abbandonata su un giaciglio e in balia del mondo circostante. Lui le ha promesso di non portarla più in ospedale, di tenerla con sé, di starle accanto sino alla fine, di assisterla fino all'ultimo istante. E così sarà.
È l'amore.
Haneke (nella foto sopra a destra con gli attori) ha tantissimi meriti, enumerarli sarebbe inutile, in questa sede come in altre, ma il principale è forse quello di aver inscenato un dramma che, benché facente parte della vita e delle sue cicliche inesorabilità, pochissimi registi hanno precedentemente avuto il coraggio di dirigere.
Della vecchiaia non si parla mai, se non come un'isola problematica ma tutto sommato serena, in cui allegri vegliardi si impigriscono giocando a bocce e brontolando con la moglie e i nipoti; ma niente che abbia a che fare con la morte, e prima ancora la perdita di se stessi, della propria identità e soprattutto del proprio corpo e autonomia. Haneke tematizza tutto ciò, portando forse per la prima volta la realtà al di fuori dei ricoveri e delle abitazioni private, permettendole di debordare sullo schermo, di colpire spettatori spesso troppo imbolsiti per accorgersi di quanto scorre loro accanto. Tutti i giorni, con fatale, centellinato orrore.
Amour è bellissimo perché vero, autentico, perché mostra le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E nonostante le argomentazioni trattate, non lo fa mai in modo volgare o compiaciuto, ma piuttosto seguendo immagini sorprendentemente delicate. La perdita della moglie, e prima ancora la comprensione della perdita imminente, è raccontata attraverso uno sguardo (il campo-controcampo che vediamo sulla locandina): è qui che Georges, cercando un barlume di vita negli occhi vitrei di Anne, intuisce che ormai la loro lieta esistenza sta per giungere al capolinea, e che quanto fino a quel momento è stato soltanto immaginato si è ora mutato nella cruda realtà.
Michael Haneke realizza un film sulla solitudine, che tecnicamente ricorda la sua primissima fase austriaca (Il settimo continente; Benny's Video; 71 frammenti di una cronologia del caso), soltanto di segno opposto: se nel trittico summenzionato la fissità della macchina da presa, i suoi raggelanti piani sequenza, la lunghezza a tratti sfiancante delle inquadrature era simbolo e sintomo di un allontanamento fortuito e progressivo tra le persone, qui diviene al contrario il collante tra due individui, che nonostante tutto e a dispetto di tutto, riescono ancora a cogliere la bellezza dei sentimenti in una società che agli anziani (come a chiunque altro non rispetti determinati criteri di appartenenza) troppo spesso volta le spalle.
Quando Anne si ammala, gli amici non si presentano alla sua porta nemmeno per un saluto. Forse perché sono già morti, forse perché i sopravvissuti di questa malattia chiamata senilità vivono nelle stesse condizioni della donna, e quindi, come lei e ancor più di lei, sono impossibilitati nel lasciare le rispettive stanze. Solo un giovane studente si è ricordato della sua ex-insegnante, un ragazzo che malgrado gli impegni professionali e i successi ottenuti come pianista a livello internazionale ha trovato il tempo di onorarla con una visita. Per il resto, Georges e Anne devono contare solo sulle loro forze, abbandonati da chiunque, affidati alle mani di medici troppo sconsolati per portar loro conforto, e di infermiere, badanti e operatrici assistenziali che come spettri solcano l'un tempo rumoroso, fragrante e profumato appartamento.
C'è spazio anche per la figlia, Eva (Isabelle Huppert, sempre bellissima nonostante i suoi quasi sessant'anni), una donna in carriera che si presenta dai genitori soltanto per renderli edotti dei propri successi, e che solo secondariamente si informa delle condizioni di salute della madre. I due hanno persino dei nipoti, citati en passant, e che mai e per nessun motivo entreranno nel nostro campo visivo, nemmeno a latere degli eventi. I rapporti famigliari sono scanditi da una freddezza a tratti agghiacciante, da una lontananza ancor più profonda (e profana) di quella che lentamente separa (pur tenendoli al contempo paradossalmente uniti) gli imbelli Georges e Anne.
Il problema principale di Amour, e quindi la sua limitazione, è forse, oltre al ritmo eccessivamente lento, cadenzato da lunghi dialoghi, situazioni quotidiane seppur ripetitive, gesti reiterati nel tempo, la pressoché totale separazione tra i “due mondi” narrativi: il microcosmo della coppia protagonista, avulso da ogni contatto con l'esterno, e quello di tutti gli altri, dalla figlia e dal rispettivo marito, presenze puntualmente assenti, al giudizioso portiere e alla di lui consorte, che penetrano nell'appartamento più per una questione di formalità professionale che per reale interesse o legame affettivo.
{mosimage}Ciò rischia spesso di far apparire il dramma come un qualcosa di lontano dall'esistenza dello spettatore medio, non perché egli non abbia vissuto (o stia vivendo o vivrà) la separazione dai propri cari, ma perché così facendo manca (in alcuni attimi) la dimensione di identificazione, per esempio, tra i figli e i genitori. È come se il regista ponesse la sua storia in uno spazio ideale, lontano da qualsiasi influenza, e che solo di rado viene avvicinato da qualcuno che, pur avendo diritto di intervento, resta testimone delle vicende. Di sicuro Amour sarà molto amato da chi ha superato i sessanta, proprio perché racconta un episodio plausibile e purtroppo destinato a compiersi, mentre con maggiore difficoltà sarà recepito da un pubblico più giovane e generalista. Forse.
Un momento di sintesi tra i due opposti lo si trova, e cioè quando una seconda infermiera viene assunta da Georges perché colmi i turni lasciati scoperti dalla collega. Vediamo questa donna vestire e pettinare un'Anne ormai rinsecchita, dal volto incartapecorito e la bocca mummificata in una perenne, grottesca stortura delle labbra; l'anziana si dimena, si agita, impossibilitata nel parlare, inibita nella comunicazione; l'infermiera la pettina con decisione, dicendole che così sarà bellissima, che tutti verranno a trovarla, ad ammirarla nuovamente. E infine, in spregio alla vergogna che la paziente avverte, all'umiliazione che quel volto ormai abbruttito dagli anni e dalla malattia le procura, ella la costringe a contemplarsi nello specchio.
Georges la licenzia, dicendole, “Le auguro che un giorno capiti anche a lei quello che sta succedendo a mia moglie, e che qualcuno la tratti come lei tratta i suoi pazienti, indifesi, in balia del mondo intero”. E quando l'infermiera ha preso i soldi, poco prima di lasciare l'abitazione, lo apostrofa con un secco: “Vada a farsi fottere, vecchio coglione”. È un dialogo crudo e serrato, che ci resta dentro, sedimenta e marcisce da qualche parte nel fondo della nostra anima.
Haneke ci stupisce con la semplicità di un montaggio minimale per non dire inesistente, che sfumando la pellicola con un che di brechtiano e perturbante, crea un'incredibile distanza tra la regia e il materiale trattato. Non che il suo demiurgo non sia presente, è invero la scelta di mantenere un certo divario tra tempo del racconto e la cornice in cui questi è incastonato a rendere la narrazione ancor più impressionante e a noi vicina.
Georges e Anne sono soli, come lo siamo noi spettatori dinnanzi alla tragedia della vita. Amour è un film che insegna a vivere perché prima di tutto insegna a morire. È un film che rappresenta qualcosa oltre il cinema, oltre la raffigurazione del dolore e della felicità. Amour è il sentimento che nonostante le avversità, il male, la consapevolezza della morte, ancora ci rende uomini.
Marco Marchetti