Quello di Tim Burton, più che cinema, è un concetto olistico, i cui segmenti narrativi, sia che vengano considerati in se stessi, sia che siano tra loro saldati in un'impalcatura consequenziale, forniscono sempre un risultato maggiore delle parti in esame. L'estetica inscenata dallo stravagante regista californiano è qualcosa di “espanso” rispetto a un'ipotesi di unicità, non solo o non tanto perché la sua prolifica filmografia, con i suoi cascami, la passamaneria vellutata, i fronzoli arabescati, fa risplendere (almeno al botteghino) l'altrimenti tenebroso concetto di gotico; piuttosto perché i suoi lavori sono ormai un marchio di fabbrica, un brand in celluloide (e tendenzialmente anche un po' cellulitico, come ogni formula con gli anni riproposta, e con gli anni tendente giocoforza al disfacimento).
Mi perdonino i burtoniani integralisti, ma è doveroso riconoscere, se non altro per una questione di onestà intellettuale, che se il trittico Big Fish (2003), La fabbrica di cioccolato (2005) e La sposa cadavere (2005) aveva rappresentato il periodo di “massimo consenso”, gli anni immediatamente successivi, escludendo l'ellenistica parentesi barocca di Sweeney Todd (2007), hanno contribuito a sgonfiare il Burton-mito in una maniera quasi indecorosa. Alice in Wonderland (2010) faceva talmente schifo da suscitare più curiosità antropologica che senso del raccapriccio, mentre Dark Shadows (2012) pareva un filmetto da prime-time Canale5 che almeno una stitica smorfia di insofferenza riusciva a strappartela.
In effetti, anche questo Frankenweenie rischierebbe di esaurirsi nel suo trailer, se non fosse per il ritorno alle atmosfere spooky and gloomy (bellissimo questo dittico terminologico) che la Disney, a dispetto della rispettabile nomea, ha comunque deciso di consentire all'immiserito regista. La storia è quella di un tale Victor Frankenstein, giovanissimo rampollo della famiglia Frankenstein, ramo statunitense, che dopo aver perso l'adorato cagnolino Sparky (foto a sinistra) in un incidente automobilistico, appronta un geniale marchingegno elettrico per riportarlo in vita.
L'esperimento va a gonfie vele, fino a quando gli altri compagni di classe, ragazzini di proverbiale cattiveria e biblica gelosia, non decidono, tra sotterfugi e minacce, di fregare la rivoluzionaria idea e dilettarsi a sperimentarne le tragiche conseguenze sui rispettivi animaletti domestici. Presto quello che pareva uno stimabile quartiere americano, con le sue casette di legno, le strade rette e pulite, i giardini decorati e ben tenuti, si trasforma in un metaforico parco dell'orrore, con creature striscianti che sbucano dal water, tartarughe-Gamera che calpestano tutto quanto si pone sul loro cammino, diavolacci metà gatto metà pipistrello che svolazzano e soffiano rognosi a chiunque li infastidisca.
Dal punto di vista visivo, Burton è insuperabile: la fotografia in bianco e nero curata da Peter Sorg (Coraline; La sposa cadavere) immerge le vicende in un lucore tenebroso e malaticcio, mentre le scenografie di Rick Heinrichs, Tim Browning (già suoi collaboratori) e Alexandra Walker collocano il film in un ambiente fantasioso, costruito lungo le coordinate geografiche e mentali di uno spazio solare ma guatato al contempo da ombre gravose e minacce invisibili; si tace sulla lista di visual artists implicati nel progetto, ché non basterebbe una pagina intera per ospitarne i nomi, ma è superfluo sottolineare che come sempre in Burton (come in qualsiasi prodotto Disney, d'altronde) tutto è di una perfezione imbarazzante.
I personaggi di questo universo sottosopra (in gruppo qui a sinistra) sono stupendi: pupazzoni grotteschi e un po' scemi, ma scaltri e intraprendenti all'occorrenza, così lontani dai modelli canonici del disegno animato, tanto vicini ai vizi e alle (poche) virtù del mondo reale (che pure è presente, nelle vesti vampiresche di Christopher Lee, in un film Hammer proiettato nel salotto di casa Frankenstein: la realtà “recitata” degli umani è percepita come un cartone animato dai protagonisti bande dessinée del film). L'amichetto di Victor, Edgar Gore (nomen omen), è un orco ebete dai denti storti, una gobba più grande di lui, e un sorriso caprino perennemente appiccicato alla facciona anche quando non avrebbe alcun motivo per sorridere. Il professore di fisica è smunto come un morto e, per simmetrico equilibrio, fa da pendant all'imbolsito e grassoccio vicino di casa.
Gli attori di Burton sono tutti brutti, strani, ciccioni o allampanati all'inverosimile, hanno gli occhi felini, le movenze di un troll, i lineamenti scheletrici di un qualche antico demone. Fanno paura, e sotto sotto sono abbastanza incattiviti da tenere a debita distanza chiunque abbia sufficiente sale in zucca per coglierne la puerile malvagità. Se li conosci li eviti, insomma. Ma il pregio di Frankenweenie è invero il magico mondo a quattro zampe popolato dai più o meno fedeli amici dell'uomo: il cagnetto Sparky, che dopo la resurrezione, perde pezzi imbullonati in giro per casa e necessita di un'alimentazione molto particolare per permettere ai putrefatti tessuti di reggerne il metabolismo (no, niente carne umana: soltanto i cavi della corrente attaccati al collo); il gatto della stralunata vicina, una sorta di fantoccio pelosissimo e miagoloso, e la cagnolina di cui Sparky è innamorato, una barboncina trasformatasi presto in una canina Lady Frankenstein, con tanto di mèche imbiancate alla bisogna.
Burton dirige un buon film, benché l'epoca dei fasti in stop-motion galleggi ormai a profondità siderali. Sono trascorsi appena sette anni da La sposa cadavere, eppure sembra che tra i due poli della creatività burtoniana si collochino oceani insormontabili. La differenza tra le pellicole, così vicine concettualmente eppur così lontane fattivamente, non riguarda la tecnica realizzativa, né un presunto sottotono registico, né una possibile carenza di inventiva, ma al contrario uno scarto sostanziale del target di riferimento: il pubblico “maturo”, per così dire, ha lasciato il posto a quello eternamente fanciullo, capace di cogliere il disegno ma non le sfumature, di apprezzare i mostriciattoli (dai denti posticci e dagli artigli di plastica) anziché i più tenui dettagli.
{mosimage}È come se tutto venisse ricondotto a una dimensione più domestica e addomesticata, e gli eccessi visivi, le stranezze, le corbellerie e finanche le furbate fossero state attentamente prosciugate della loro carica eversiva. Dinnanzi all'orrore della situazione, una gigantesca, rassicurante mano cala dalle demiurgiche nubi della regia, coccolando lo spettatore impaurito e confortando il genitore ancora indeciso se portare il figlioletto in sala. L'intemperanza è presto stemperata, l'eccedenza buttata in caciara, la follia rigorosamente maîtrisée, controllata e ripulita.
Frankenweenie è un film interessante senza essere sorprendente, burtoniano ma non burtonianamente geniale. Poco importa, si dirà, perché in fin dei conti la sua bellezza riesce a soddisfare il bambino misantropo e sciroccato che ognuno di noi si porta dentro. E tanto basta per giustificarne la visione.
Marco Marchetti