“Nero is simply fuckin' rock'n'roll”. Questa frase, introduzione del profilo della band dal sito di Nero & The Doggs, potrebbe valere come recensione di ognuno dei loro dischi, dei quali anche noi ci siamo occupati, in occasione del loro concerto al LoFi (di spalla ai veterani Chrome Cranks), celebrazione viscerale e in-yer-face del più puro Stooges sound che abbia scosso il capoluogo lombardo negli ultimi anni.
Ora però il cantante, noto nell’underground milanese come Nero Kane (foto a destra, così lo trovate anche su Facebook) ha partorito il suo primo album da solista, autoprodotto, dal titolo Lust Soul, evolvendo le sonorità dal “simply fuckin' rock'n'roll” detroitiano ad assorbire meccaniche drum machine (particolarmente riconoscibili su In My Town), che saranno anche un’esigenza legata al fare da solo quasi tutte le parti strumentali del disco, ma è anche vero che non vengono dissimulate per fingere una minimale batteria “umana” (come ad es. fecero i Jesus & Mary Chain), il che dona alle nuove canzoni un retrogusto vagamente alla Suicide. “Tra l’altro, una delle mie band preferite di sempre”, ci dice lui chiacchierando durante la serata dedicata a Bowie al Ligera, dove ha già presentato l’album in concerto.
L’occasione è ideale per scoprire che il metodo impiegato appunto da Bowie nelle registrazioni berlinesi di Low e Heroes – portare in studio semplici riff e abbozzi di canzone da sviluppare poi stratificando successive parti strumentali già in fase di registrazione, a volte addirittura improvvisando il testo al momento di mettersi al microfono, come Bowie apprese proprio dll'Iguana – è più o meno quello utilizzato anche da Nero per Lust Soul, su cui l’autore – oltre a cantare – ha suonato chitarre, basso e piano, affidando solo synt e ritmiche al tecnico di studio Dario Vergani (e qualche parte di chitarra solista e piano a Roberto Gramegna, già ingegnere del suono anche per Tiziana Ghiglioni).
Lungi da noi dire che l’album del milanese sia per questo già una pietra miliare del rock come i due monumenti del compianto Duca (cui peraltro s’avvicina lo strumentale d’apertura, Death In June), ma secondo me è indubbio che questo disco rappresenti una decisa evoluzione e maturazione del paesaggio sonoro di Nero, che ora non si pone più come un semplice devoto del “rock’n’roll animal” detroitiano ma amplia la propria tavolozza ad atmosfere più notturne e fredde, da new wave settantasettina.
Ecco perché secondo me il paragone più calzante per il suo album è proprio con l’immortale The Idiot, disco spesso sottovalutato da fan e critici come una specie di “sottoprodotto di Bowie”, ma che negli anni ha conquistato il suo giusto posto di classico di un grande – l’Iggy per l’appunto – che ha dimostrato di saper anche ampliarsi al di fuori dell’uniforme del selvaggio, con dischi come appunto quello e il successore Lust for Life, Zombie Birdhouse o Avenue B. Di saper offrire anche atmosfere da coroner decadente, tra i Velvet e il Nick Cave suo colto epigono. Atmosfere che Nero cesella per esempio nella più delicata Old Demons, una delle canzoni più lontane dal suono Doggs.
Lust Soul è fatto della stessa materia prima: un ibrido (oggi potremmo definirlo cyberpunk) di metallo freddo, cavi elettrici e latex, materiali che purtroppo non saranno mai di moda nelle sfilate sonore del Belpaese, ma che – se uscisse non dico in UK ma almeno in Germania – avrebbe carte non inferiori da giocarsi di un buon disco di Alan Vega, di Hugo Race o dei nordici Madrugada (il cui cantante pure è appena tornato in pista con un disco nuovo molto lodato). 35 minuti scarni di musica (3 meno di The Idiot), canzoni efficaci, riff assassini come sempre, un bel video clip per il seducente, velvettiano singolo Tomorrow Never Comes (diretto e cointerpretato da Samantha Stella | Corpicrudi, foto sopra a sinistra e qui a destra, team autore di video performance come Preludio per una Sinfonia in Nero, su musiche dei Joy Division, in scena all'Elfo nel 2014).
Sentitelo: sarà il 18 marzo al Rock’n’Roll di Milano e il 25 al LoFi, ribadisco che rimane l’Iggy più credibile in circolazione, anche nelle sue evoluzioni wave.
Intanto, dopo aver molto cercato qualcosa da scrivere sul compianto Duca Bianco e sul suo bellissimo Blackstar - che non fosse già stato sviscerato nella valanga di commemorazioni seguite alla sua dolorosa dipartita - forse ci siamo riusciti: abbiamo parlato di un disco nuovo e underground, in parte vicino al mood berlinese, invece di rivangare il passato. Come ha sempre fatto lui, che invece di celebrare una più che gloriosa carriera, ha impiegato gli ultimi giorni per finire la sua estrema gemma, nutrendosi dei poco noti jazzisti del quartetto di Donny McCaslin, mentre dagli oscuri metallari Lazarus Blackstar (!) succhiava idee visive per i suoi ultimi video con gli occhi bendati.
Mario G