“L’era del rock è al tramonto e la nostra pure” è una piccola autocitazione-anticipazione. La frase proviene infatti dal mio romanzo “Buio In Scena”, tuttora in gestazione. Ve la offro in pasto qui perché è un pensiero che ho fatto più volte di recente: io non sono più giovane, quelli da cui mi ostino a comprare cd o vinili (che i giovani ormai perlopiù disdegnano) sono all’incirca miei coetanei, i concerti che ho visto quest’estate sono stati degli ultrasessantenni Van Der Graaf Generator e Patti Smith (tutti in gran forma, peraltro, ottimi live) e dello svogliato Mark Lanegan, mio coetaneo (1964) reduce (stanco?) del grunge.
Mi sono anche entusiasmato quest’anno per il ritorno sulla scena di David Bowie, con uno dei suoi migliori album della maturità (The Next Day), per il rientro dei Black Sabbath originari col valido 13, o per il ben venticinquesimo album (Onward) degli immarcescibili Hawkwind, uscito l’anno scorso: un piacere d’ascolto che non tradisce una “ruga musicale”. Eccetera.Ma… e le novità? Dov’è finita la “musica giovane per i giovani”? Che fine farà il rock quando – tra poco, ormai – saranno spariti tutti i superstiti miti della golden age, senza un ricambio generazionale che faccia emergere volti/voci nuove/i, gente di vent’anni che rimischi le carte nel mazzo?
Domande oziose, lo so: la nostra società invecchia complessivamente e il rock, l’arte, è il riflesso della società, non il baluardo contro quel che non ci piace, anche se così vorremmo. Il rock non può più essere antagonista se nella società mancano forti idee antagoniste da esprimere, non può rigenerarsi se i giovani mancano o tacciono.
Anche i Chrome Cranks, visti poche sere fa all’Arci Lo Fi di Milano (locandina sopra a destra), non son più dei novellini: del batterista Bob Bert (un autentico underground, che ha mollato Sonic Youth e Jon Spencer prima dei rispettivi stardom) non si sa l’età esatta, ma appunto è in giro dall’82. Il primo disco della band è del ’95, son comunque quasi vent’anni sulle spalle anche per loro.Ma fanno il loro dannato lavoro, questo va detto: il cantante Peter Aaron gigioneggia al microfono da par suo, sgranando le sue buffe facce spiritate mentre contorce la forma blues verso quegli estremi che ha ben imparato alla scuola dei Birthday Party, dei Beasts Of Bourbon, certamente di Tom Waits, su un tappeto sonoro che deve molto al citato Jon Spencer e alle sue numerose incarnazioni Pussy Galore/Boss Hog/Blues Explosion: raucedine alcoolica e jingle jangle desertici. Bert implacabile ai tamburi, il bassista Jerry Teel immobile sotto l’improbabile cappello di feltro (sarà morto dal caldo e suona da zombie?) e un solido, corpulento secondo chitarrista misteriosamente in azione fuori scena, sulla sedia da cui non si muoverà per l’intero set (QUI trovate dei clip dal concerto milanese). Avevo in casa la loro compilation Diabolical Boogie (cover a destra), nel cui libretto Aaron celebrava con grande umiltà – invece che la visione musicale “unica e rirripetibile” che ama sventolare ogni rock band del mondo – l’orgoglio di essere semplicemente uno degli anelli della catena che va da Iggy Pop ai Cramps, da Cave ai White Stripes. Uno colla testa sulle spalle, se si può dire di un cantante così. Al concerto mi sono preso anche il loro cd Love in Exile, ma non l’ultimo (Aint No Lies in Blood del 2012, se non erro). Per investire gli ultimi 10 euro rimasti in tasca, gli ho preferito il nuovo parto di una band – per una volta – giovane e italiana, per contraddire tutto quanto sopra. Per sostenere il nuovo che avanza, con tutta la fatica che sappiamo costa far qualcosa di artistico (non solo nel rock) ora in Italia: l’ottimo Death Blues (ne vedete la copertina in apertura, troverete presto il cd da Psycho) dei milanesi Nero and the Doggs (precedentemente solo Doggs e peraltro già citati su Posthuman).
Non me ne sono pentito: 40’ per dieci brani di vigoroso rock detroitiano in cui, se più d’una volta affiora il riff di TV Eye (Sweet Confusion e Sin City), bisogna riconoscere loro che non cala mai la tensione. Nero and the Doggs hanno le idee chiare, un po’ come i Chrome Cranks cui son stati intelligentemente accostati: non credono di rivoluzionare la storia della musica, ma occupano l’oggi di quelle sonorità immortali con un’intensità che non ha nulla da invidiare ai vecchi Not Moving, indimenticata leggenda del garage italico, cui solo l’esser nata nel Bel(?)paese ha impedito di conquistare un cult status pari a quello dei Cramps o dei Gun Club, per dire.
O dei Chrome Cranks oggi, appunto. Che dall’America ci arrivano, e noi ne siamo felici. Ma chi porterà agli americani i nostrani Nero and the Doggs, ora che (lontani i Not Moving e i Carnival Of Fools) è il loro momento, chi farà scoprire loro che questo garage dell’umida palude padana non ha niene da invidiare a quello del Delta o della California?
Intanto voi date una chance a Death Blues: il gruppo è cresciuto da Red Sessions, il suono è più pieno, corposo, in studio si arricchisce qua e là di qualche strumento extra (viola, armonica, piano), anche se la triade chitarra-basso-batteria la fa inevitabilmente da padrona, come dal vivo. Dove sfoggiano un impatto di tutto rispetto, credetmi: Nero strappa al suo basso suoni pesanti, qua svisando slide sulle corde con una bottiglietta di birra, là ergendosi quasi doom su una muraglia di chitarre che ti stende anche nella secca durata di mezz’ora del support act.
Dal vivo ovviamente si privilegia l’energia (vedere per credere QUI), ma sul disco apprezzerete anche qualche atmosfera più sofferta/oscura alla Bad Seeds, come in Blue Moon White Light (accompagnata dalla viola di Alice Marini), oppure nel conclusivo trip di Back To The End, che a me ha ricordato uno psycho dark (diciamo alla Echo & the Bunnymen?) attualizzato ai suoni di oggi.Forse, se ci guardiamo in giro, non ci sono solo reunion di vecchie glorie: mentre scrivevo, su FaceBook ho scoperto casualmente un nuovo duo americano (formazione molto trendy al momento): le Deap Vally; ok, spudoratamente whitestripesiane (chitarra+batteria-ebasta) ma almeno nate nel 2011 e all’aspetto (piacevolissimo) ambedue sotto i 30 anni, ma con una voce, quella di Lindsey Troy, vigorosamente janisjopliniana.
Forse non è ancora finita. L’urlo della chitarra striderà ancora prima che il vento soffi sulle nostre tombe. Anche fra le rovine d’Italia. E i Nero and the Doggs meritano di stridere anche fuori dalle mura di Milano.
Mario G
P.S.: le foto di Nero and the Doggs provengono dal concerto al Lo Fi (Posthuman ringrazia gli autori), mentre quelle dei Chrome Cranks in b/n sono d'archivio.