The middle class was the new proletariat, the victims of a centuries-old conspiracy, at last throwing off the chains of duty and civic responsibility.
(da Millennium People)
Cassonetti rovesciati, automobili incendiate, vetrine fracassate senza pietà da guerriglieri domenicali armati di gonfaloni calcistici e vaghi sogni di supremazia razziale. Un gigantesco centro commerciale trasformato in un luccicante campo di battaglia, con fazioni belligeranti assediate nelle sue oblunghe corsie, stanziate nei saloni sfavillanti, appostate nelle sue spazialità ultra-moderne e futuristiche. Il capitalismo implode.
Non per minacce esterne, per i perigliosi timori della mondializzazione, ma per le sue contraddizioni dialettiche, per la saturazione del senso sociale che una borghesia iper-consumista non riesce più a gestire.
L’unica soluzione è la rivolta permanente, la rivoluzione, l’assedio ai nuovi non-luoghi della contrattazione identitaria. Kingdom Come (2006, a sinistra la cover italiana, a destra l'inglese, NdR), il coronamento letterario del grande scrittore, il suo testamento narrativo, il suo monito per un futuro troppo pazzo per (non) essere verificabile.
James Ballard (1930-2009) è stato più di tutti il teorico della rivoluzione. O meglio, della psicopatologia come normalizzazione seriale dell’impulso libidico, come canalizzazione vettoriale del desiderio. Il risultato è l’insurrezione violenta e necessaria. Non si tratta tanto di una demolizione sistemica della società, dei suoi costrutti normativi, della sua moralità, e neppure di una più o meno meditata riscrittura delle parti. Ballard è andato oltre il discorso orwelliano e post-kafkiano di controllo, di fatalità del potere, di binomio individuo-società (stato). La crisi è piuttosto la frammentazione della democrazia, il turbamento di un apparato privo di concentrazione di potere. Dalla nevrastenia del controllo alla psicosi del libero mercato.
Da questo punto di vista, le sue riflessioni sono molto più vicine, se dovessimo individuarne un corrispettivo teorico-sociologico, al lavoro di Zygmunt Bauman che alle implicazioni distopiche di matrice classica. Insieme o parallelamente all’opera dello studioso polacco, Ballard individua i disagi del tardo-capitalismo, ma non lo fa mai seguendo le mode passeggere di chi ricorre alla dicotomia ricchezza-povertà, post-colonialismo e identità dei popoli sfruttati per fare dell’opinionismo spicciolo. La sua narrativa non resta ancorata alle colpe, al senso storico di responsabilità collettiva, preferisce piuttosto indagare il presente e l’immediato futuro. Precisando le molteplici relazioni, gli intrecci giacobini, i labirinti sconnessi tra economia, lotta di classe e politica salottiera.
Dopo le radicali sperimentazioni linguistiche degli anni settanta, Ballard sposta l’attenzione sul capitalismo tardo-moderno, sulle aporie che ne compongono l’ossatura. Ma sempre con impegno certosino per la credibilità del personaggio, per la sua psicologia, per le motivazioni che lo spingono ad agire e a ragionare secondo schematismi non convenzionali. L’universo romanzesco di Ballard rifugge il facile manicheismo, la polarizzazione tra bene e male. Le ragioni dell’atto narratologico sono sempre più complesse, più intimistiche di quanto la matrice proppiana dei rapporti attanziali lasci di norma supporre. Il noto schema di Propp è totalmente spodestato: non più caratterizzazioni immutabili dei personaggi, rigide gerarchie tra buoni e cattivi, piuttosto sfumature caratteriali, delicate nuance, interessanti approfondimenti.
In Ballard il milieu sociale gioca sempre un ruolo fondamentale, rivelandosi elemento imprescindibile per comprendere e interpretare le parole dello scrittore. Anzi, egli fu uno dei primissimi a revisionare la fantascienza, le sue caratterizzazioni, il suo impianto estetico. Il mondo sommerso (1962) o Foresta di cristallo (1966) sono ottimi esempi di questo spostamento dall’outer space all’inner, al riposto, agli imi della mente. Il rapporto tra l’individuo e l’ambiente diventa fondamentale, il paesaggio, desolato, desertificato o invaso dalle acque, assurge a stato d’animo entro cui gli spettri di un’umanità disperata si muovono alla ricerca di un senso.
L’impero del sole (1984) è forse il massimo modello (autobiografico, d’altronde) di questa relazione (l’omonimo film di Spielberg del 1987 vedrà un giovane Christian Bale nella parte dello scrittore). Un Ballard appena adolescente strappato alla famiglia nella fumosa Shangai del Secondo Conflitto Mondiale. Internato in un campo di concentramento, sopravvissuto per miracolo.
La violenza fa parte della natura umana, e soltanto un illuso potrebbe vedere nella pacifica convivenza il fattibile disegno politico di una classe dirigente. Ballard indaga allora i non-luoghi del contemporaneo, segnalando la totale discrasia tra l’immagine e il suo intrinseco significato.
I vari Charles Prantice, Wilder Penrose e Richard Gould di Cocaine Nights (1996), Super-Cannes (2000) e Millenium People (2003) non sono che altolocati professionisti, rivoluzionari del tempo libero, ideologi post-ideologici, nati sulle ceneri del Novecento e nutritisi di scorie intellettuali, estremizzazioni sociologiche e derive dottrinali della più varia natura.
Immersi nel tepore dei loro residence estivi, nelle camerate luminose dei loro uffici splendidamente arredati, protetti da famiglie sorridenti e perfette, covano il desiderio di distruzione e di onnipotenza. Vagheggiano di appendere i loro vestiti eleganti e puliti, di accantonare i loro modi educati e impeccabili, di rinunciare alla democrazia in favore di forme tribali di organizzazione.
Il condominio (1975) è il primo caso di involuzione predisposta delle relazioni abitative. Un gigantesco palazzo, sogno e segno concentrazionario dell’attualità, in cui stipare merci e masse, in cui omologare i cittadini all’insegna di flussi finanziari normativi e in cui condividere convenzionali forme di socialità entro ambienti pianificati e circoscritti.
La pacifica convivenza si rivela presto un tenue miraggio, perché chi sta sotto (fisicamente, occupando un appartamento più economico) si rode il fegato desiderando lo spazio ampio e luminoso di chi abita al piano di sopra. E chi è stanziato al piano superiore non mostra molto rispetto per i subordinati. Tutto comincia con qualche festa fuori controllo, bottiglie gettate dall’ultimo piano che si fracassano sulle autovetture degli impiegati. Ecco che i primi ribelli organizzano la guerriglia condominiale, destinata a sfociare in un gigantesco, ingovernabile conflitto armato. Dalle poltrone delle ordinate assemblee alle clave, alla violenza di gruppo, per finire addirittura col cannibalismo.
Il caso più estremo e profetico pare però essere stato L’isola di cemento (1974), moderna boutade alla Defoe, versione spuria e agghiacciante del Robinson Crusoe capitalista. Un uomo bloccato in seguito a un incidente in uno svincolo autostradale. L’isola è appunto la zona verde che circonda le strade, che si dipana lungo un terrapieno caricato di rifiuti e poltiglie. Nonostante le richieste d’aiuto, nessun automobilista si ferma a raccattare il poveretto che per intere settimane dovrà nutrirsi, proprio alla maniera dei profughi e dei clandestini, degli avanzi gettati dai finestrini delle vetture.
Il post-fordismo, invasivo e pervicace, ha creato un sistema di forze ed equilibri in disarmonica simmetria. Da un lato, le ragioni del benessere sociale, i centri dei moderni vertici finanziari: le banche, le assicurazioni, le società di servizi. Dall’altra, la psiche umana, crudele, violenta, sospettosa. Ancora la summenzionata (a)simmetria, sempre più impotente nel bilanciamento corretto delle forze sociali. Il sistema a feed-back implica perciò una concausa di effetti disastrosi e inerziali, provocati in buona misura dal falso mito consumista di un benessere di cartapesta. Questo consumismo derivativo è ormai consunto, e sotto i suoi lustrini, la patinatura, l’integrazione si celano le pulsioni più recondite e bieche del razzismo, le fobie, l’ossessione seidliana del controllo sociale (riferimento a Ulrich Seidl, regista austriaco del ballardianissimo Canicola, 2001).
La borghesia si ribella. La middle class protesta (con gusto solo apparente per il paradosso) contro se stessa. Contro ciò che è diventata, contro la brodaglia da reality-show in cui s’è trasformato l’istinto animale, contro un’articolazione strutturale all’insegna del bon ton televisivo e della convivenza sedativa delle parti civili. La borghesia vuole la violenza. Vuole riversarsi per le strade, abbandonare la mortifera tranquillità delle zone urbanizzate e dei salotti mediatici, imbracciare spranghe e caricare molotov. Distruggere quegli stessi centri culturali in cui ha dovuto reprimere le proprie pulsioni, annientare i suoi ariosi uffici, assaltare i post-moderni simboli di un futuro appiattito. In quest’ultimo rigurgito di ismi (ecologismo, ambientalismo, terrorismo e, ultimo ma non meno importante, femminismo), la borghesia non sembra avere le idee molto chiare, ma i caporioni della rivolta, i suoi più acerrimi sostenitori, individuano proprio in questa mancanza di significato la spinta fondamentale alla ribellione.
Indifferenza, razzismo, intolleranza e sospetto. Il paradiso del diavolo (1994) svela addirittura le turpi mire eugenetiche di un femminismo festivaliero e politicamente affabile nei modi. Lo scopo di tale neo-ideologia è allora utilizzare gli uomini come schiavi sessuali, controllare le nascite (maschili) e favorire quelle femminili. Il tutto su un’isola deserta, un’oasi del pacifico, lontana da sguardi indiscreti. La Natura prende il sopravvento e riscrive la cultura, svelando la realtà del fanatismo, la falsità di una parità sessuale ossessiva e alla fine pericolosa e incontrollabile.
Etichettato a lungo come autore di fantascienza, Ballard si è rivelato molto di più della somma delle sue parti. Scrittore, saggista, fine conoscitore d’arte (notate che nell'immagine in apertura lo scrittore è davanti a una tela di Delvaux, NdR) e letteratura (sue le dotte trattazioni su Edward Hopper e William S. Burroughs), allo studioso inglese si deve il merito di aver colto gli impulsi sottili ma nondimeno prepotenti di un’umanità paranoica e insaziabile. Che gli scenari siano quelli surreali, catastrofisti, de Il mondo sommerso o La foresta di cristallo, poco importa. Dall’outer space all’inner, dalla sci-fi esplorativa alle forze oscure che si agitano nel profondo dell’individuo, Ballard sposta i termini del discorso, ma come in un corollario, come in un filosofico teorema, il risultato resta invariato. Le involuzioni neo-darwiniste de Il condominio e L’isola di cemento, fino ad arrivare alla produzione dell’ultimo decennio, non sono che la sintomatologia clinica, patologica, di un malessere diffuso. Ballard s’è fatto interprete involontario del panorama sociale urbano contemporaneo, delle contraddizioni di un’epoca sempre più nevrotica e destinata al collasso.
{mosimage}Il cerchio si chiude, si ritorna al principio, al punto di partenza. Il miracolo della vita (2008), ultimo, crepuscolare saggio autobiografico, svela proprio questo. Malato terminale, conscio della fine imminente, Ballard sceglie volutamente un titolo ciclico e antitetico. Come se tutto facesse parte di qualcosa di più grande e incomprensibile, ma eccezionalmente logico e coerente. Qualcosa che poteva cogliere soltanto uno scrittore che ha vissuto la sua arte in profondità. Nella sua essenza più segreta, nella bellezza e nel dolore della vita.
Marco Marchetti