Una piccola produzione europea, diretta dagli spagnoli Balaguerò e Plaza, sta durando in sala più degli strombazzati Resident Evil Extinction e Grindhouse-Planet Terror di Rodriguez (oggi recuperabili in dvd). È la prova che evidentemente per il pubblico il gioco funziona, al di là di tutti i discorsi sull’esperimento della videocamera a mano in soggettiva etc. (il pubblico dell’horror in buona parte se ne frega di discorsi critici, quanto i critici in genere sottovalutano l’horror).
In effetti, nulla da eccepire: superato l’agghiacciante spot elettorale della Lega che sembra un extra di Beowulf e ci getta nel vero panico (!), il film ‘vero’ mantiene le promesse e dispensa innanzitutto la sua brava ora e mezza di spaventi senza perder tempo. Intendo quelle pallose presentazioni dei personaggi tipiche degli horror ‘medi’, interessanti quanto i lenti dell’heavy metal, con dialoghi alla “dobbiamo uscire di qui!”, che ti fan solo sperare che il mostro cominci a stenderli alla svelta, quei personaggi. No, qui entriamo subito nel metadiscorso cine-tv, colla telegiornalista che prova e riprova l’apertura del servizio le cui riprese saranno materialmente IL film che noi vedremo sullo schermo.
Dopo un giretto nella caserma dei pompieri si entra nel vivo della vicenda, che i due spagnoli guidano con astuzia acuminata (i consensi son pressoché unanimi su forum, blog e riviste del settore): gli zombie, ma meglio dire i contagiati – siamo più dalle parti di 28 Giorni/Setimane Dopo che dei morti viventi di Romero – sono come dei cani rabbiosi (anzi proprio di lì proviene il contagio) e, coerentemente col mood spoglio e cronachistico del film, non esagerano in bubboni e purulenze splatter, son solo degli invasati che ti piombano addosso e sbranano, aiutati appunto dalla fotografia sballata in cui il mosso, il non visto, il fuori fuoco e il buio prevalgono ampiamente sulla nitidezza. Quindi lo splatter sembra più quello di un tg contemporaneo (Olindo e Rosa in agguato?), non quello esibito, grafico e iperrealistico cui ci hanno abituato gli SFX cinematografici hollywoodiani.
E qui sta il punto forte della pietanza spagnola, come del suo precursore storico Blair Witch Project (come del contemporaneo Cloverfield, che speriamo di vedere e commentarvi presto): appunto NON far vedere, ma far temere ciò che sta fuori campo, nel buio, ciò che accade quando la videocamera è spenta e c’è solo l’audio…
Tutti effetti del “cinema-verità”, del video amatoriale non montato, che i due registi hanno usato furbamente, combinandoli (va detto) con dialoghi realistici, privi di frasi enfatiche e di eroismi rambeschi – in un certo senso, “in presa diretta” come le immagini – in bocca ad attori credibili nella loro pochezza e meschinità di persone comuni spaurite, che tirano fuori il peggio di sé: il piacere di mettersi in mostra, raccontare i fatti propri, farsi riprendere dalle telecamere anche nel momento della tragedia, la tentazione di dar subito la colpa di quest’ultima all’Altro, alla vecchia strana (foto qui sotto a sinistra), ai cinesi, alla bambina malata (foto sopra a destra) e al suo cane, alle Autorità… già, proprio questa è l’Umanità.
Insomma, bei dialoghi asciutti, bravi attori, originale fotografia da Lars Von Trier ubriaco, suspence e colpi di scena dove servono, metadiscorso a cappello sul tutto… quindi siamo al capolavoro? Sinceramente non lo so, alla fine il famoso dubbio BWP rimane anche a me. C’è un finale un po’ “tirato via”, anche se seguiamo la logica del film, per cui il film è ciò che il cameraman ha ripreso, e quando lui smette di riprendere (OK, NON vi dico come!) il film finisce. Io l’ho trovato comunque un finale brusco che si poteva mettere a punto senza minare l’impianto teorico dell’opera.
Beh, direte voi, ma alla fine è solo un film ‘de paura’, no? Eh no, perché comunque c’è un discorso sotteso sulla “fame di scoop” della tv che spinge per tutta la trama giornalista e operatore sempre più a fondo nelle fauci dell’incubo; discorso sottolineato dalle continue domande di lei: “Ce l’hai? Stai riprendendo?”, che oltretutto è proprio la chiusa (decisamente programmatica oltre che un po’ inverosimile) del film.
Quindi l’idea di lanciare un messaggio politico sull’ingordigia d’immagini della tv (e della società che essa riflette) c’è eccome. Un messaggio molto “post-Videodrome” (come leggerete più approfonditamente nel mio cinearticolone che uscirà su NeXt numero 11, in cui traccio tutta la storia della declinazione cinematografica del rapporto fra violenza e schermo video, proprio partendo dal capolavoro di Cronenberg dell'82), lo dimostra proprio l’attacco “metafilmico” con le prove di ripresa ripetute cui accennavamo sopra.
Però è un tema che resta un po’ lì non sviluppato a fondo, come se i registi volessero “darci l’idea” di avere anche qualcosa da dire di più profondo più che dirlo… non so se mi spiego, una sorta di alibi intellettuale per dare un senso di profondità a un film che, se no, è proprio solo ‘de paura’ (Come Ils?).
Forse, pensando ai pionieri del "cinema-diretta", REC è più figlio del trucidissimo Cannibal Holocaust di Deodato (del '79) che del sottile e autoriale La Morte in Diretta di Tavernier (dell’81).
E cosa resta di tutti questi discorsi, alla fine, voi chiederete? Sicuramente resterà la sperimentazione formale sul mezzo video utilizzato come veicolo di “finto realismo cronachistico”, della soggettiva e del piano sequenza portati alle estreme conseguenze: ossia ESEERE essi stessi il film. Un’interessante ipotesi produttiva e realizzativa innanzitutto, soprattutto in quanto riesce a dare un senso espressivo a mezzi molto pauperistici, che nutrirà riflessioni intellettuali da un lato e progetti di cineasti indipendenti ‘poveri’ (sì, come noi!) dall’altro.
Perché in effetti potrebbe davvero costituire, se non si logora in fretta colla fine dell’effetto-sorpresa del “girato sporco”, un’autentica strada di crescita per una nuova generazione di cineasti indipendenti in digitale nell’epoca delle vacche magre.
Mario