Abbiamo “avuto”, io e Walter, le nostre Visioni di Solaris, l’ultimo lavoro teatrale diretto da Antonio Syxty in scena al Teatro Litta fino al 2 luglio: un percorso scenico che utilizza in modo non convenzionale gli spazi dello storico Palazzo Litta di Milano (in Corso Magenta), trasformandoli in altrettante “stanze della mente” in cui vengono inscenate le situazioni su cui si articola la piéce, che sfugge la narrazione lineare per trasportarci attraverso brandelli di una storia familiare, sentimentale, erotica e di morte, in cui ci è negato annodare con esattezza i fili che legano le diverse situazioni vissute-ricordate-sognate dai personaggi.
Una coppia ha un figlio handicappato, lui vuole sopprimerlo ma lei uccide il marito per difendere il figlio. Una coppia ha una figlia handicappata e ne blocca la crescita per mantenere il suo aspetto coerente col suo status psicologico di “bambina per sempre”. Il rapporto coniugale in ogni caso si rivela un incubo. Uno zio in sedia a rotelle e i suoi due giovani infermieri si provocano in un liofilizzato di dramma faulkneriano (o alla Pugni in tasca di Bellocchio) che finisce in omicidio. Visioni oniriche non spiegabili razionalmente ci accolgono mentre “per le antiche scale” accediamo ad ogni nuova stanza-visione.
Oltre che in uno spazio scenico non convenzionale, lo spettacolo si rifrange in tre percorsi indipendenti, per cui quello che Walter vi dirà qui, non è quello che ho visto io e viceversa.
I cammini si riuniscono solo nel quadro finale, significativamente l’unico che si svolge nel teatro propriamente detto (ma con gli attori in platea e noi sul palco), a sottolineare l’irrealtà della narrazione: “Il nostro rapporto è tutto un teatro”, dice l’ultima coppia in scena, mentre ricorda d’aver incontrato un vecchio, il cui crimine (bloccare lo sviluppo della figlia malata) abbiamo visto proiettato in video (ancora la mediazione dell’immagine-spettacolo) e mentre noi riceviamo un bigliettino di carta in cui la figlia stessa ci avverte di “Non credere a qualunque cosa diranno”.
E io, che di quel film e del suo autore sono un fan, non gliene faccio certo una colpa. Tanto più che (nota personale) si tratta della stessa ispirazione che nutre anche il mio racconto L’Officina dei Ricambi, in uscita su Robot n. 51.
Di Lynch risentiamo una canzone da Mulholland Drive, rivediamo i personaggi con teste d’animali (i coniglioni di Inland Empire), le citazioni dal Mago di Oz (film feticcio del Maestro) ma, soprattutto, percepiamo l’impronta strutturale complessiva: il deragliamento dell’idea di “sapere cos’è accaduto/cosa sta accadendo”, in un prisma di frammenti fra loro fittiziamente collegati da rimandi che però non s’incastrano mai alla perfezione, eludendo la nostra naturale tentazione di “capire”, di ricostruirci un continuum spazio-temporale attraverso gli strumenti della nostra logica lineare (prima-dopo, causa-effetto, colpa-innocenza, reale-immaginario). Annegandoci invece in una nebulosa di situazioni che potrebbero essere sì realistiche ma di cui ci manca sempre il “prima” e il “dopo” per afferrarle appieno, e di altre che ci irridono con ossessioni totalmente oniriche e associazioni inconsce, che ci dicono “stai solo vedendo il sogno di un pazzo”.
Ecco perché ritorna a più riprese (almeno nel mio percorso “Specchi”), la frase “A pochi passi da te, ma molto lontano da qui”, affilata metafora dell’incolmabile distanza (temporale? Spaziale? Esistenziale? Di piani di realtà?) che separa inesorabilmente i personaggi-burattini di quest’incubo senza via d’uscita come un’architettura escheriana.
Su tutto, aleggia un’aura morbosa di erotismo “trasgressivo” (travestimenti sado maso, masturbazioni, quadri osceni alle pareti) che, oltre a “fare tanto Lynch”, contribuisce all’atmosfera onirico allucinatoria complessiva.
Chiusa vibrante sulle note di Heroes di Bowie (“possiamo essere eroi solo per un giorno”, no?), sempre un brano che commuoverebbe anche un sasso.
Nello spettacolo di Syxty peraltro i riferimenti cinematografici abbondano, anche al di fuori di Lynch: brani della colonna sonora di Kill Bill, di Giù la Testa, una grande specchiera di fronte a cui un uomo e una donna ballano come idioti alla musica di un coniglietto di peluche, mimando a turno la morte – reca la scritta rossa “Redrum” (=murder), presa di peso da Shining…
Tutti riferimenti non “spiegati”, ovviamente, su cui ci si può esaltare, come nei giochi di citazioni tarantiniane, o irritare per l’artificialità del tutto (proprio come in questi giorni accade con la visione di Grindhouse). Ma, se vogliamo trovare un limite nello spettacolo, questo risiede più nella recitazione sempre isterica e sopra le righe degli attori (tutti piuttosto giovani), secondo noi non necessaria: una storia già in sé non realistica non trae vantaggio da una recitazione antinaturalistica; forse un registro più sommesso e “quotidiano” avrebbe contribuito anzi ad insinuare un’inquietudine più strisciante delle situazioni.
Mario