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Se qualcuno chiedesse che succede quando Ben Affleck, Matt Damon e Chris Moore, produttore di American Pie, si riuniscono e decidono di finanziare un film horror, ci verrebbe spontaneo rispondere soltanto in due modi: o che ci stanno prendendo per il naso, perché una cosa del genere non è possibile, o che, se lo è, ci toccherà scialacquarci una bella schifezza.
Invece no, sarà perché ai tre lestofanti se n’è aggiunto subito un quarto, tale Wes Craven, che sarà pure un furbo ma almeno è un furbo che di horror ci capisce, sarà perché la coppia di sceneggiatori, Marcus Dunstan e Patrick Melton, è quella che nell’immediato futuro scriverà pregevolissime cose come Saw 3D, IV, V, VI, nonché The Collector del 2009 (quest’ultimo diretto dallo stesso Dunstan). Insomma, a gente così non puoi chiudere la porta in faccia, soprattutto quando i due vincono nel 2005 la terza edizione del Project Greenlight, cioè un concorso ideato da Eli Holzman e prodotto dai big di cui sopra che, selezionata la miglior sceneggiatura tra le migliaia arrivate, offre la possibilità a un esordiente di giostrarsi più o meno liberamente il timone di regia. Il regista, appunto, è uno sconosciuto figlio d’arte, tale John Gulager, che s’era fatto le ossa in qualche episodio televisivo oltre che come addetto alla fotografia.
Di cosa stiamo parlando? Della Feast Trilogy, ovviamente, una serie di film (in apertura la locandina del capitolo per ora finale, qui a destra e sotto a sinistra quelle del primo del secondo capitolo, NdR) che, concepita in un arco di tempo di qualche anno, dal 2005 al 2009, ha permesso di modificare le coordinate del genere horror americano, troppo spesso deliberatamente assassinato da aberranti logiche produttive e distributive, da una censura al limite del grottesco e da una mancanza generale di brillantezza espositiva.
Sembra incredibile, ma con Feast le cose cambiano in meglio, e se Matt Damon e Ben Affleck hanno una faccina troppo rispettabile perché li si scambi per appassionati di horror (anche se Affleck in un horror ci ha recitato, Phantoms, del 1998) è comunque innegabile che Dunstan e Melton hanno dato fondo a tutta la loro verve anarchica, riportando l’orrore a quella dimensione ottantesca e profondamente disturbata di cui i vari Brian Yuzna o Stuart Gordon, tanto per citarne un paio, erano gli indiscussi esponenti.Come ci siano riusciti, è difficile dirlo, lungimiranza o più prosaica botta di culo, ai posteri l’ardua sentenza, fatto sta che per Feast i due sceneggiatori ricalcano in un certo senso il modello dell’Enigmista, cioè quel tipo di scrittura, come dire, “a ragnatela” : decostruzione della trama, montaggio e smontaggio dei blocchi narrativi, intersezioni, voragini, rimandi e fessure che, incrociandosi l’una con l’altra, determinano un modello a scatole cinesi dove il particolare è collegato al tutto, e anche i dettagli meno incisivi, le sfumature di significato, sono in realtà parte dell’architettura complessiva. Feast è di sicuro più moderato sul versante dei “giochi ad incastro”, vuoi perché ha una scrittura più leggera e flessibile, vuoi per una mera questione di fruibilità, in cui si punta più sulla spettacolarizzazione delle vicende che sulla loro ambiguità narrativa. Ma era evidente che una narrazione di questo genere, anche al netto di teste mozzate e violenze di ogni tipo, costituiva l’humus perfetto per un’idea di orrore che non si vedeva più almeno dai tempi di Dal tramonto all’alba (perché è poi quello il paradigma che ne sta alla base).
C’è un pub con una variegata campionatura di personaggi da commedia (o tragedia?) umana. Il barista cowboy (Clu Gulager, padre del regista), il giovane Bozo (Balthazar Getty, lo sprovveduto Pete di Strade Perdute, ve lo ricordate?), la bella ragazza madre (Krista Allen) che si prostituisce nelle camere al piano superiore, la vecchia babbiona che se la beve come se non ci fosse più alcun domani, e così via, di caso clinico in caso clinico. A un certo punto, si apre la porta principale e fa il suo ingresso l’eroe della situazione, Eric Dane, un belloccio con le palle che regge in mano la testa amputata di un mostro rossiccio e bruttissimo, e che sembra sapere tante cose anche se in realtà non sa niente di niente. Subito è il caos, gli avventori vanno in paranoia, fino a quando l’eroe non dice di sbarrare porte e finestre tipo Notte dei morti viventi, perché “quelli”stanno per arrivare. Peccato che il tizio finisca sbranato appena si affaccia al balcone non si sa bene da chi o cosa. Allora si aprono le danze, e il locale si trasforma in un mattatoio, con queste creature di svariate dimensioni che corrono e saltano da tutte le parti, massacrando e seviziando chiunque si trovi a portata di dente.Tutto qui, allora? Un western in salsa horror e nient’altro? Niente affatto, perché John Gulager sa stare al gioco, e utilizza questo terreno per ogni tipo di sperimentazione che il cinema mainstream degli ultimi tempi, cioè il cinema di “regime”, ha di fatto vietato nel modo più assoluto. E lo fa secondo la stessa logica tarantiniana dell’abbuffata, mescolando citazioni e riferimenti, iper-modernità e classicismo in una sintesi baroccheggiante che è sempre maggiore della somma delle sue parti. Gulager è un menefreghista che ha imparato a sbattersene di tutto, della logica, della coerenza, del sindacalismo puerile di chi, in un film o in un libro, ci deve puntualmente vedere della “normalità”. È il nichilismo più assoluto a governare Feast, a gravare sui suoi personaggi, è come se una crepuscolare pièce di Beckett venisse frullata con uno spettacolo da Grand Guignol, come se i rifugiati romeriani cadessero nel deserto di Tremors vedendosela con i giganteschi crostacei di District 9 e con le bestie viscide e bavose di Alien.
In Feast ce n’è per ogni gusto. Qualche assaggio? L’alieno (o la creatura, nessuno ci dice da dove provengano queste cose) vomita un liquame verde e verminoso addosso a uno dei sopravvissuti. Il liquido lo corrode lentamente, lo scioglie e lo trasforma in una poltiglia mucillaginosa mentre orde di lombrichi gli colano da ogni poro. In un’altra scena, invece, “l’opinion leader” della comitiva infilza un cucciolo di alieno e lo espone ai genitori arrabbiati, giusto per mostrar loro che anche gli umani sono capaci delle stesse bestiali crudeltà che essi hanno appena commesso. Ma ben lungi dal provocarne una qualsiasi reazione, i mostruosi demoni annusano la carcassa incuriositi, e poi se la mangiano in un sol boccone. Quindi si mettono a fottere, e nel giro di qualche secondo partoriscono una ributtante sacca amniotica contenente ben due altre creature, roba da Bad Biology.
Feast non ha né buoni né cattivi, e soprattutto non ha eroi manifesti: quelli che ci sono se le danno di santa ragione, fino a quando finiscono ammazzati, chi sventrato, divorato, maciullato o addentato. Dopo un po’ di bodycount arrotondato per eccesso, ecco che gli ingenui paladini della giustizia la smettono di rompere i coglioni, e il posto vacante viene preso da qualche ben più pratico carattere minore, troppo impegnato a salvarsi il deretano per tenere alto lo spirito di gruppo. Va da sé che non tutti crepano per davvero (come il baldo Gulager senior, che s’accascia per un infarto e ritorna miracolosamente a vivere, ammaccato ma ancora deambulante, nel secondo capitolo della saga), e non tutti fanno la fine che meritano, almeno non subito. Alla bella Honey Pie (Jenny Wade) viene affidato il nobile compito di recuperare un camion parcheggiato nel piazzale del locale per permettere ai prigionieri di darsela a gambe. Peccato che la sensuale barista, dopo una fuga rocambolesca con tanto di cavia umana trasformata in bomba (l’altrettanto sensuale motociclista, Diane Ayala Goldner, che tutti credevano morta) parte in quarta e se la svigna lasciando gli altri a marcire in quella topaia isolata dal mondo.
Il secondo film, Feast II Sloppy Seconds (2008), inizia esattamente dove finisce il primo. È pieno giorno, chi è morto è morto e chi l’ha scampata ha tagliato la corda, resta soltanto il cowboy Gulager senior che si scontra con una banda di virago lesbiche in Harley Davidson, capeggiate dalla sorella della bomba umana di cui sopra (sempre Diane Ayala Goldner) e dal suo harem di rosse e morettine tatuate (rispettivamente la sublime Chelsea Richards, Katie Supple Callais e Melissa Read, una più arrapante dell’altra, soprattutto la scarlatta Richards, che vedete nella delicata panoramica a sinistra, NdR). Poiché l’incazzatissima Biker Queen vuole vendicare la gemella spedita a cantar con gli angeli, la sua banda di centaure va a caccia dei transfughi con l’idea di farli a fette, cosa che in effetti riesce a fare anche se la fregatura è dietro l’angolo.I (nuovi) sopravvissuti si ritrovano bloccati in una città fantasma, piena zeppa di mostri zannuti che per la prima volta vengono mostrati per bene, la luce del giorno che ne illumina le granchiesche deformità. Qui c’è un po’ di tutto, due nani da circo esperti acrobati wrestler (Martin Klebba e Juan Longoria Garcìa), un venditore di auto usate (Carl Anthony Payne), la sua amante (Hanna Putnam) e l’amante dell’amante (Tom Gulager, fratello di John e, curiosamente, aiuto regista del già citato The Collector). Poi ritorna Honey Pie, quella che se l’era svignata a bordo del camion, che finalmente le prende di santa ragione (le fracassano la testolina contro la ceramica del cesso) e poi viene quasi decapitata da un bidone della spazzatura volante (in realtà muore nel terzo episodio, quando viene decapitata per davvero da una delle creature che, dopo aver ingoiato la sua testa, la defeca semi-corrosa dai fluidi intestinali).
Tutti questi disperati fanno comunella e si rinchiudono in un negozio di ferramenta. Purtroppo il posto non è sicuro, perché quel genio di Greg (Gulager brother) ha la fantastica idea di seviziare il cadavere di un mostro ammazzato con un punteruolo infilato nel culo, giusto per capire come è fatto dentro e, presumibilmente, perché l’unico modo per combattere il nemico è conoscerne il funzionamento. Greg non sa niente di medicina, ovvio, così squarcia il bestione e si mette a ruspare nelle sue budella più con il fascino morboso di un macellaio che con l’interesse del medico. Schiaccia di qui, tocca di là, gli organi della creatura si animano d’improvviso: prima è lo stomaco a rigettare la solita sbobba verde a base di vermi (e a farne le spese è la dolce nonnina dei nani) quindi il pene gigantesco che, innalzatosi per una qualche imprecisabile reazione meccanica, sottopone le belle motocicliste a un bukkake degno di un pornografo pazzo.
E qui si raggiunge lo Schifo Sublime: un momento catartico, per così dire, in cui siamo messi di fronte all’esecrabile orrore di cui è capace Madre Natura quando crea il creabile e quando decide di mandarlo al padreterno facendolo imputridire (nell'immagine a destra un momento preparatorio dei trucchi di make up sul set). È tutto uno schizzare di liquami limacciosi, un vomitare l’uno addosso all’altro, un continuo rigurgitare fluidi viscerali. Ma Greg non si ferma, vuole andare fino in fondo, esaltato da una sete di conoscenza che sfocia nel fanatismo: dopo aver rimosso gli organi interni della cosa, ecco che dal torso sventrato sbuca fuori una creatura strana e tentacolare, nel caso specifico un gigantesco cavolfiore che poi si rivela essere un occhio perfettamente vivo e funzionante. Questa specie di parassita (su cui purtroppo non vengono fornite ulteriori delucidazioni) a contatto con l’ossigeno lancia un agghiacciante grido di richiamo e in men che non si dica i suoi simili accorrono in massa per dargli man forte. L’unica soluzione a quel punto è scappare sul tetto dell’edificio, sprangare la porta e sperare che regga agli assalti degli invasori.{mosimage}È qui che finisce il secondo episodio ed è sempre da qui che, in una perfetta cesura, si apre l’ultimo capitolo della serie, Feast III The Happy Finish (2009). I mostri stanno per arrivare e la porta non reggerà molto agli assalti. C’è una sola via di fuga, ovvero saltare sul tetto dell’edificio più vicino, una stazione di polizia, ormai però in mano a un ex-detenuto fuori di testa (William Prael) che si rifiuta di fare entrare qualunque estraneo. Il piano è assaltare la centrale, mettere K.O. il baldo sovversivo, imbottirsi di armi e ricacciare i mostri all’inferno a suon di proiettili. L’unico imprevisto è che la stazione dista svariate decine di metri, ma i nostri non si perdono d’animo e fabbricano una catapulta di emergenza con la motocicletta di Biker Queen e gli indumenti delle sue girls. Mentre lo spettatore è troppo impegnato a lustrarsi gli occhi con tanga e seni nudi, il povero nano, Thunder, è scelto come vittima sacrificale: a lui viene assegnato il discutibile onore di testare la catapulta e guidare i ribelli alla conquista della centrale di polizia. Credete che il piccolo Thunder riuscirà nel suo eroico intento? Certo che no! Il disgraziato fa la fine del topo, prima spappolato sull’asfalto, quindi sbudellato e mangiato pezzo per pezzo dalle creature.
D’improvviso il colpo di scena. Ecco che da un angolo salta fuori il “profeta” (Josh Blue), un tizio incappucciato come un monaco che, convinto di possedere virtù medianiche, scaccia i demoni con la semplice imposizione della mani (in realtà è solo l’apparecchio acustico che trasmette interferenze così intense che l’udito degli alieni non è in grado di sostenerle). I poveri cristi decidono di dargli retta, e lo seguono nelle fogne, in un dedalo sotterraneo fatto di cunicoli, oscuri budelli e labirintici corridoi invasi dall’acqua. Dalla padella alla brace. Infatti la cloaca della città è infestata da questi guerriglieri assatanati che, organizzati in una non meglio precisata tribù di cannibali e assassini, sterminano barbaramente ogni estraneo che va a disturbarli. Non si anticipa nulla del finale, come è giusto che sia, ma se ne vedranno delle belle.
Questo connubio di horror, comicità demenziale e “grotteschitudine” galoppante potrà anche non piacere, ma è innegabile che Feast apre uno spiraglio nel cinema americano contemporaneo, troppo schiavo di una cultura da McDonald e di regole sintattiche modellate secondo le istanze di una produzione miope e spesse volte decisamente ottusa. Detto in altri termini, Feast ha ciò che manca a tanti altri consimili, ovvero le palle quadre. Nessuno può (ancora) dire se sia un esperimento a suo modo congiunturale, realizzato quasi per caso e destinato a restare lettera morta, o sia piuttosto il principio di una rinascita dell’indie più estremo. Chissà. Certo è che mentre si scrivono queste righe giunge voce di una sceneggiatura già pronta per il quarto capitolo. Speriamo bene.
Marco Marchetti