Diciamolo subito: il nuovo album di Trent Reznor è uno dei pochi dischi che si possano definire realmente “importanti” dell’annata. Importante proprio nel senso che aveva il termine negli anni d’oro in cui il rock era la colonna sonora di una controcultura e lasciava nelle coscienze di una, di alcune generazioni, segni che andavano oltre l’originalità artistica dei suoni.
Forse, in quest’inizio di XXI secolo senza pace, siamo (finalmente?!) all’alba di un “nuovo ‘68”, anche se fatichiamo a precepirne le tracce (ma anche in quello storico, ricordiamolo, i Demetrio Stratos erano contemporanei a Mina, il punk al “tempo delle mele”: l’importanza di certe cose di capisce con chiarezza sempre in una prospettiva storica).
Di certo, Reznor ha sentito l’esigenza di dir le cose chiare e le molte paure che affliggono il pianeta in questo momento filtrano nei testi dell’album senza tanti giri di parole. Cominciamo proprio di qui: ambientato in un assai poco “fantascientifico” 2022, Year Zero ci parla di guerra (“No one’s even sure / what we’re fighting for / or who we even are anymore / I feel so far away”, da The Good Soldier), di dittature mediatiche (“I got my propaganda, I got revisionism / I got my violence in highdef ultra-realism / all a part of this great nation…” da Survivalism), di controllo ed intercettazioni ai danni della libertà individuale (“Watch what you think, they can read your mind”, da The Beginning Of The End, che sembra scritta pensando all’attualità italiana!), di religione oscurantista (“I wouldn’t tell you anything that wasn’t absolutely true that hadn’t come right from his mouth and he wants me to tell you…”, da God Given) e avanti con l’allegria…
Dal punto di vista musicale, l’album segna un ritorno alle storiche atmosfere industriali minacciose delle origini dei Nine Inch Nails, a scapito dell’impatto rock più diretto dell’ultimo With Teeth e della ricchezza strumentale del precedente The Fragile: qui domina l’elettronica distorta, i ronzii disturbanti, crepitii di misteriose interferenze comunicative, cupe vampe dissonanti che avvicinano le sonorità a un incrocio fra l’industrial rock dei ’90 e il Tricky più spiritato. Non stupisce che Reznor dichiari l’album registrato “in tutto il mondo”: è evidente che un self made man come lui ha fatto più del solito tutto da solo, nelle pause del tour; infatti solo in pochi brani compaiono musicisti ospiti (il supporto vocale di Saul Williams, la batteria di Josh Freese e una sezione fiati in Capital G). Il primo singolo è stato Survivalism – effettivamente, uno dei brani dalla forma canzone più compiuta – ma è lecito dubitare che quest’album contenga tormentoni in grado di scalare le classifiche di vendita (né peraltro sembra questa l’intenzione del suo torvo demiurgo).
Un impianto sonoro minaccioso e perfettamente allineato con le tematiche millenaristiche dei testi, perfetta colonna sonora per l’operazione di guerrilla marketing-controinformazione-resistenza umana orchestrata dall’autore per il lancio del disco: un sofisticato progetto multimediale che è tutt’uno coi temi dell’album e sembra realizzare una sorta di cronenberghiano Videodrome del rock. Vale davvero la pena di leggerla: la contorta trama di tracce digitali sparse come per caso tramite chiavette USB lasciate nei cessi delle sale da concerto in cui s’è esibita la band, siti web apparsi improvvisamente in rete, forum e messaggi in codice stampati su magliette, addirittura diffusi tramite appositi cellulari recapitati agli iscritti alle newsletter dei NIN. Alla fine (e sul retro del cd) si riceve il minaccioso avviso dell’USBM (U.S. Bureau of Moralità) che diffida dal far uso di materiale sovversivo e a denunciare chi “sia coinvolto in azioni o pensieri sediziosi”.
Certo, si potrebbe ridurre il tutto a un’astuta e costosa manovra di lancio, ma secondo me c’è sicuramente qualcosa di più, molto di più. Le vendite di cd languono in tutto il mondo e questo disco è quanto di meno “commerciale” si possa immaginare per giustificare un investimento come quello (a noi ignoto ma di certo cospicuo) messo in campo dal Nostro e dall’etichetta Interscope. No, Reznor ha fortemente voluto il “suo videodrome” come parte integrante del messaggio (sì, qui la parola è pienamente giustificata) del discorso musicale-testuale sotteso alle canzoni. Che è chiaramente una posizione politica molto netta sull’american system di oggi.
Anche se è curioso notare come la controinformazione protestatoria del 2000, per attuarsi in forme mediatiche così sofisticate, non può prescindere dalla collaborazione con operatori tlc, internet provider oltre che multinazionali del disco, tutte aziende che sicuramente fanno il loro business ben dentro i meccanismi del sistema… ma forse era lo stesso anche quando Dylan o i Clash pubblicavano i loro dischi "sovversivi" con la Columbia.
Invece, dal punto linguistico, l’operazione Year Zero si declina secondo una filosofia simile a quanto progettato per esempio in Italia da Antonio Syxty per il suo spettacolo Visioni di Solaris , oppure da David Lynch, non tanto per il lancio quanto a livello di “sabotaggio” della linearità narrativa, per il suo Inland Empire per chi non l’avesse visto in sala, è in distribuzione da 01 il dvd, sia per il noleggio che per la vendita, recuperatelo!).
È vero che il discorso di Reznor ha una marcata connotazione politica polemica sui Grandi Temi dell’attualità di questi anni, che non è fra i primi obiettivi degli altri due autori citati (per quanto anche nel Solaris del Litta non manchino telegiornali con scene di guerra, reduci in divisa da conflitti non precisati etc.); tuttavia ci ritroviamo proprio quella frammentazione del discorso in una nebulosa di frattali semantici sparsi, in cui viene meno il collante della logica lineare, di un discorso che va da alfa ad omega.
Come se una delle dominanti culturali di questo periodo storico fosse proprio la perdita del Senso ultimo, della logica causale. Una perdita che, messa in scena in un’opera filmica, teatrale o letteraria – che tradizionalmente si basa su una narrazione lineare – genera un effetto ancor più spiazzante rispetto ad un’opera rock (sì, il disco dei NIN ha molti tratti dell’opera rock “a tema”), in cui – volendo – l’ascoltatore può sempre fruire della canzone come momento a sé stante.
Ma, in ogni caso, ti colpisce sempre quando autori fra loro distantissimi, esponenti di linguaggi diversi, confluiscono autonomamente in percorsi paragonabili: pensate che, parlando col regista Antonio Syxty del suo Visioni di Solaris , ci spiegava che il progetto originale dello spettacolo (poi semplificato per esigenze produttive) andava proprio in questa direzione. Frammenti dei tre percorsi scenici-narrativi dovevano apparire su diversi blog, mentre la definizione di quale percorso seguire sarebbe stata frutto delle risposte fornite a un questionario via mail e il messaggio finale d’accusa della figlia sui genitori-aguzzini avrebbe dovuto essere inviato via sms agli iscritti a una mailing list che avessero lasciato il proprio numero di cellulare…
Vi spinge a qualche riflessione? Forse, questa frammentazione sta realizzando il concetto di “Molteplicità” delle Lezioni Americane di Calvino… O forse, come direbbe Trent Reznor “On all our lies we depend / we face our consequences / this is the beginning of the end”.
Disco obbligatorio. Buon ascolto. This is the beginning.
Mario G
P.S.: curiosamente, quando abbiamo telefonato all’ufficio stampa della Universal Music Italy chiedendo una copia del cd da recensire, ci è stato risposto senza complimenti che le poche copie promozionali non potevano essere distribuite a pioggia “a tutti i siti che ne fanno richiesta”! Che ne dite, faceva sempre parte della strategia di lancio? ;-)