1.1 #ArM@nD#
L’atrio era umido e freddo come la notte che aveva attraversato per giungere sino a lì.
La scala era stretta e saliva verso l’alto come la coda di un serpente attorcigliato si incunea tra le stelle.
Nel buio evanescente, lassù, una vaga luminescenza si espandeva. Così diversa dalla luci taglienti che solcano le nostre città così simili alla pietra.
Nelle nostre città non ci si può più perdere, tutto è sempre netto, pulito, senza zone d’ombra.
Ma in questa morbida penombra, in questa notte artificiale, che ispira quasi riverenza, tutto può succedere.
Cominciò a salire i gradini lentamente, con aria solenne, giocando a tornare bambino e spaventato.
Varcare la soglia di questo palazzo antico, coperto di edera, ben dissimulato, era come tornare indietro nel tempo, era come tornare fragili, inermi. Tornare alla paura del buio, del vento che soffia rauco nel camino mentre il mare infuria e sibila la tempesta.
Si sarebbe svegliato con un raggio di sole contemplando i pini abbattuti e la sabbia smossa nel giardino? Sarebbe successo così? Oppure non si sarebbe svegliato affatto?
Per queste domande non c’era più tempo. Era arrivato in cima. Bussò alla porta tre volte e sussurrò la parola d’ordine. Ci fu un rumore meccanico, poi più nulla. Una morsa gli strinse lo stomaco, come se un paio di artigli di acciaio volesse strapparglielo di dosso e portarselo via lontano.
Si accese una spia luminosa. Porgere il volto. Come verso uno specchio opaco, e sorridere. Non gli era mai piaciuta questa prassi. Si mise a ruotare lentamente, sentendosi un pavone dalla coda spelacchiata. Di là, da qualche parte oltre la porta un occhio ben addestrato stava rielaborando la sua pelle, la sua retina, il suo timbro vocale, i suoi denti, i suoi capelli, le sue unghie, le sue viscere e chissà cos’altro ancora.
Le sue mani erano sudate. Non gli era mai piaciuto essere osservato, misurato, classificato in quel modo. Era una prassi certo, ma lui non si era mai abituato. Questo era parte del problema. Parte del fatto per cui era lì.
La risposta si faceva attendere. Strano, di solito erano molto spediti quelli del Centro Riconoscimento. Ma forse gli uomini di Armell non si limitavano a questo. Forse avevano accesso a banche dati segretissime e protette dalla polizia di stato. Non che questo lo inquietasse, a lui non interessava, non aveva certo di che preoccuparsene nella sua posizione, certo non di questo. Forse era naturale che fossero così scrupolosi, non dovevano garantire ai loro clienti la massima segretezza?
Finalmente la porta si aprì. Una donna sulla quarantina, slavata e ossuta gli fece cenno di entrare.
Il bianco immacolato del suo camice, si stagliava sul bianco madreperla delle pareti, pareti abnormi, ondulate. Non ne aveva mai viste, così.
O forse sì, in un sogno, da bambino, nei cunicoli labirintici sotto una vecchia chiesa. E al centro del labirinto c’era un tesoro. Ma ogni tesoro ha il suo drago. Che diavolo gli stava succedendo? Queste erano pure associazioni! Da quando la sua mente aveva ripreso a funzionare così? Da quando era entrato lì, certo. Questo lo fece sentire a disagio.
La donna si fermò. Aprì una porticina e l’invitò ad entrare.
“Si accomodi pure qui. Il Prof. Armell la riceverà tra pochi minuti. “
Sgusciò dentro e sollevò lo sguardo al soffitto. La volta era affrescata in puro stile del rinascimento italiano. Soffocò un’ondata di disappunto.
Ma era solo l’inizio. Il divanetto era in perfetto stile francese del 1700, con dei voluttuosi motivi floreali. Nonostante la repulsione, si sedette.
Rimase sul bordo, però, tamponandosi la goccia di sudore che gli scivolava sul labbro.
Un quadro alla sua destra raffigurava una giovane donna seduta al piano in posa intima con un giovane con una piuma sul cappello.
Gli venne un mezzo conato di vomito. Si asciugò la fronte con il fazzoletto.
A sinistra un arazzo raffigurava una dama medievale con un cavaliere che le baciava la mano con sguardo estatico.
Un brivido gli gelò la schiena, aveva le mani ghiacciate e sentiva salirgli come una febbre.
Si chiese se dopo sarebbe stato lo stesso. Domani avrebbe potuto guardare tutto questo senza sentirsi male?
Si chiese se ad Armell piacessero o se l’ostentazione con cui faceva sfoggio di quadri, tessuti, mobili appartenenti ai secoli banditi facesse parte della sua strategia “aziendale”. Certo se il gusto del proibito era quello che li attirava nella sua tana come il miele attira le mosche, sarebbe stato logico che il luogo segretissimo dove avveniva l’iniziazione alla sua Cerchia trasudasse il lucore acidulo di una bellezza proibita.
E tuttavia forse non era solo questo, forse davvero potevano piacergli? Forse domani sarebbero piaciuti anche a lui…
Il brusco rumore di una porta che si apriva e chiudeva lo scosse dalle sue riflessioni. Dei passi risuonarono nel corridoio e si tacquero proprio lì, vicino a lui.
“Allora, mi raccomando Eric. Conosci bene le regole.”, era una voce calda, matura, baritonale.
Poteva scorgere i profili di due uomini in trasparenza oltre la porta, come in un gioco di ombre cinesi che ormai nessuno gioca più.
“Non preoccuparti. Ti ho mai deluso, forse?”, questa era una voce più morbida, quasi acquosa, sicuramente più giovane.
L’ombra di destra posò una mano sulla spalla di quella di sinistra, con tono paterno, premuroso. Almeno così sembrava a lui. Forse perché era così che avrebbe voluto che fosse? Da quanti anni non vedeva più suo padre? Riusciva a malapena a ricordare il suo volto.
“Va bene, passa pure da Amande. Ci penserà lei a darti quello che ti serve. Ma non esagerare.”
L’ombra ruotò e si fece gigante. Il pannello semitrasparente si aprì. Un uomo alto, bruno, barba sottile e perfettamente sagomata, avanzò verso di lui in un eccentrico completo di velluto nero. Nessun uomo di buon gusto si sarebbe mai fatto vedere così da uno sconosciuto.
Si scoprì a ridere, o forse era solo l’imbarazzo, o forse era solo la paura.
“Sono lieto che sia venuto.”
La sua stretta era forte ma delicata, i suoi occhi violetti lo scrutavano dietro degli assurdi occhialetti con la montatura in oro. Dovevano essere un modello antico. Di nuovo si scoprì a sorridere e di nuovo a dubitare.
Improvvisamente una testa bionda si sporse e un paio di occhi azzurri terribilmente rossi e dilatati gli lanciarono un’occhiata maliziosa.
“Eric! Lasciaci lavorare! ” gridò Armell.
Scomparve in un battito di ciglia lasciandosi dietro la lama beffarda del suo sorriso. E una vocina stridula, canzonatoria, che prese a dire che in questo mondo lui era solo un novellino, uno alle prime armi, in altri tempi si sarebbe detto uno che non ha mai scopato. Oggi era solo uno che non sapeva più provare emozioni, figuriamoci se poteva sapere cosa significa “amore”. Cosa che lui, invece, questo Eric, sembrava conoscere ormai fin troppo bene… Bene. Se era così, lo avrebbe saputo anche lui. A qualsiasi costo.
“Deve essere molto antica questa casa.”
“Sì… Fu costruita nel 1400, più di seicento anni fa.” Non gli sfuggì una punta di orgoglio. Avevano imboccato il corridoio e procedevano a passo spedito.
“Chissà quante cose devono essere successe tra queste mura… “
“Moltissime. Alcune molto piacevoli, altre decisamente meno. “ Entrarono in una sala ampia e rotonda, rivestita di tende rosso scarlatto.
“Questo luogo la mette a disagio?”
“Si, cioè no… è solo che non sono abituato a luoghi così pieni di … personalità…”
“La personalità è quello che ci interessa e per cui siamo qui, no?” lo squadrò come se volesse fare una radiografia del suo pensiero. “Se vuole ripensarci, è sempre in tempo…”
La spia della videoregistrazione si era accesa e un piccolo occhio meccanico si sporse verso di lui.
“No, no… sono deciso.”
Mentiva, perché tutto era ancora confuso, perché c’era ancora qualcosa in lui che non voleva cedere.
“Dopo le sarà difficile tornare indietro. Voglio che ne sia assolutamente consapevole. ”
Aveva dimenticato come certe occhiate siano affilate come coltelli. Quel qualcosa che si agitava dentro di lui, batteva le ali, si dimenava e voleva fuggire, avrebbe dovuto parlare adesso. Ma non parlò.
“Sono consapevole che il processo a cui sto per sottopormi non è reversibile e ne accetto pienamente le conseguenze.”
Scandì bene le parole guardando fisso nell’obiettivo. Armell sembrò soddisfatto e il piccolo tentacolo meccanico tempestato di gemme si ritrasse nel suo taschino. Quell’uomo pensava a tutto, davvero. Non c’era da stupirsi che la sua segretissima associazione fosse arrivata così lontano, conquistando un posto inconfessabile nella società dei potenti.
“Bene. Allora possiamo iniziare.”
Si girò con grazia e azionò una piccola leva dorata, uno strano magnifico congegno calò al centro della stanza.
Rimase immobile, quasi senza fiato. Nella sua testa pulsava il vociare di mille desideri dissonanti. Si era sentito così Adamo prima di azzannare la mela?
“Prego.” La sua voce era gentile, ma decisa.
Lentamente avanzò verso la poltrona allungata di velluto scuro rifinita in oro. La circondavano come una corona sottili fili trasparenti in cui sembrava scorrere un liquido rosso come il sangue.
Si sedette, la testa gli pesava, le gambe gli pesavano, tutto il suo corpo era un masso al fondo di un oceano.
Come un condannato a morte infilò il casco scintillante che Armell gli porgeva e si sdraiò allungando le gambe come un automa.
Sentì la leggera pressione di un anello meccanico chiudersi sulle sue braccia e un leggero prurito come la puntura di un insetto nell’incavo dei gomiti.
“Tra poco sarà uno di noi.”
Nel cono di luce Armell si sporse su di lui con un sorriso enigmatico. Un sorriso che non poteva sopportare, almeno non ancora.
Chiuse gli occhi e quel poco che restava della sua anima, se mai ne aveva avuta una, si destò, sbadigliò, si stiracchio, si sporse pigolando, infine schiuse le labbra all’orda di gioie e dolori sconosciuti che cominciavano a riversarsi dentro di lui.
Fu così che dalle ceneri dell’ Armand di allora, nacque una nuova creatura. Una creatura difficile a nutrirsi, difficile a crescersi in quel corpo lì, con quella vita lì.
Io sono questa creatura.