«Aiò, preparati, ché il tuo tempo è scaduto».
Così dice una voce misteriosa.
E, dopo averla udita, uomini, bambini, ragazze del paese sardo (immaginario) di Abacrasta ubbidiscono: si legano una corda o la cintura al collo, e si appendono. Finché «nelle tanche di Abacrasta non c’è albero che non sia diventato una croce».
Come una maledizione, una nube nera di morte su un’intera comunità.
Perché? Non è dato sapere. Accade e basta. Così è, come le motivazioni delle capricciose e violente gesta degli dèi greci.
Invece Corrado d'Elia, regista e unico interprete-narratore (che vedete nelle foto ai lati dell'articolo, ovviamente) del bel testo scritto da Salvatore Niffoi, in scena al Teatro Libero (di cui è anche direttore artistico) – seduto su uno sgabellone davanti al microfono, circondato da una simbolica Stonehenge di massi mediterranei e da farfalle e orologi appesi a fili nell’aria – sfiora l’horror ma non vi affonda, puntando invece a una poesia dolente ma non sanguinaria. Ecco, mi verrebbe da paragonarla a una specie d’incrocio fra il verismo dialettale di Verga (anche lui si serve di una lingua ibrida di cadenze dialettali) e il realismo magico di Marquez.
Ma la tragedia di Abacrasta non è orrore puro, perché prevede anche una redenzione: un giorno arriva «una femmina cieca, con i capelli lucidi come ali di corvo e i piedi scalzi». Chi è questa Redenta Tiria? Una strega, un angelo, la figlia del sole, come si definisce lei? Non è dato sapere. Prima non c’era e all’improvviso arriva e c’è. Come l’arcangelo Gabriele, come Django. C’è e parla a sua volta. Svelando il mistero a chi vuole ascoltarla, come l’oracolo di Delfi.
E il mistero è molto semplice: basta voler «tagliare la lingua alla Voce».
Perché, nel Sud come nella vita, le maledizioni, le faide, sono nemesi storiche inarrestabili finché l’animo umano se ne lascia trasportare atavicamente rassegnato e non vi si oppone. Una ragazza nata cieca era stata miracolata e aveva votato la propria verginità a Santa Lucia che le aveva ridonato la vista. Quando il fuoco dei sensi la spinge a tradire il suo voto dando alla luce un figlio la maledizione la condanna. Ma Redenta le indica una via: la maledizione sarà sconfitta là dov’è cominciata. La ragazza si reca in pellegrinaggio col figlio al santuario di Santa Lucia e là, durante una specie di diluvio simbolico, sventa la rituale condanna ad espiare nel sangue i presunti peccati.
E così la vita alla fine l’ha vinta sulla morte. Come in una fiaba, per quanto densa di sangue.
{mosimage}Un breve monologo, accompagnato dalle musiche folk di Marisa Sannia, che tocca temi alti e tutt’altro che localistici, tracciando quella che efficacemente viene definita una “religione della vita”: perché è nella vita stessa l’unico riscatto possibile dalla maledizione atavica, quale che essa sia, faida familiare, passionale, mafiosa, malattia o destino avverso.
Se siete a Milano, vedetelo, fino al 24 luglio. Scalzi o con un paio di sandali, ve li concediamo. O, se non potete, vedete gli altri appuntamenti della coraggiosa rassegna Liberi d’Estate: QUI arrivate comodamente al programma completo.
Perché osar proporre del teatro a Milano dalla fine di luglio ai primi d’agosto è già in sé una sfida della vita alla morte e alla rassegnazione.
Mario G