“Niente muore mai veramente. L'universo non spreca niente.”
(dal film Ultimatum alla Terra, 2008)
Perché introdurre un articolo su Solaris con una citazione da Ultimatum alla Terra? Perché – nonostante la drammaturgia di Fabrizio Sinisi per la messinscena del Centro Teatrale Bresciano in collaborazione con ScenAperta Altomilanese Teatri – sia ricca di frasi lapidarie e significative (di cui trovate qualche esempio annotato durante la recita di ieri sera più oltre), questa mi sembrava individuasse perfettamente il tema chiave del soggetto: quello dell’eterno ritorno.
L’astronauta Kris Kelvin (Giovanni Franzoni, qui a sinistra), giunto sulla stazione orbitante intorno al pianeta Solaris, si ritrova prigioniero dell’apparizione della moglie Harey (Debora Zuin, a destra), suicidatasi dieci anni prima (dopo la sua partenza per un’altra missione). Angosciato quanto attratto dalla visione che mette in discussione la sua stessa idea di realtà, Kris arriva a spararle per liberarsene, ma la donna ritorna ancora e ancora da lui, inesorabile come l’amore e il senso di colpa.
Il suo collega scienziato, Antonio Rosti (che riassume in sé i personaggi di Snaut e Sartorius del romanzo e vedete con la Zuin nella foto a destra) scopre l’origine del fenomeno: il fortissimo campo magnetico generato dal misterioso oceano gelatinoso e senziente di Solaris favorisce l’aggregazione dei neutrini che compongono il simulacro di Harey (e delle altre “presenze” del romanzo, eliminate dalla drammaturgia teatrale per semplificare cast e messa in scena). Anzi, più torna a materializzarsi, più la “copia” acquista concretezza e senso d’identità, arrivando a ribattere al collega scienziato del marito “con quale diritto cosa è umano e cosa no? Con che diritto mi tratti come una cosa?”.
Anche in Kris il conflitto interiore porta una trasformazione: pur consapevole dell’irrealtà della presenza della moglie, finisce per superare lo sconcerto e aggrapparvisi come unica forma di sopravvivenza della moglie perduta. “È soltanto un riflesso” lo ammonisce lo scienziato raziocinante. “E se a me bastasse?”, è la risposta dell’astronauta.
Forse i fantasmi dei nostri ricordi sono una realtà più vera di quella concreta che si stende intorno a noi. Di certo, il loro eterno ritorno è tema ricorrente, non solo nella fantascienza: della stessa “gelatinosa” materia viveva infatti L'anno scorso a Marienbad di Resnais/Robbe-Grillet (uscito lo stesso anno del romanzo Solaris), che si ispirava al fantascientifico romanzo breve di Adolfo Bioy Casares L'invenzione di Morel (1940), che sarebbe diventato un film diretto da Emidio Greco nel ’74. Ma è sempre l’idea dell’eterno ritorno che più avanti nutrirà anche la filosofica “insostenibile leggerezza dell’essere” del Tomasz di Kundera (a sua volta filmato nel’88 da Philip Kaufman), ambientato non nello spazio o nel futuro ma durante la Primavera di Praga.
Probabilmente il polacco Stanislaw Lem nel ’61 non si aspettava che il medesimo destino avrebbe arriso al suo romanzo di densa fantascienza filosofica (oggi da noi edito da Sellerio): infatti sarebbe diventato un film tv sovietico nel ’68, poi un capolavoro del cinema di tutti i tempi nella versione di Tarkovskij del ’72 (con una prima travagliata versione italiana a cura di Dacia Maraini con la voce di Pasolini e doppiaggi dialettali, di cui vedete a lato la locandina), un remake americano firmato da Steven Soderbergh, interpretato da George Clooney e prodotto da James Cameron nel 2002.
Nessun riferimento diretto al film di invece nel Visioni di Solaris teatrale di Antonio Syxty del 2007, che impiega il riferimento per una sorta d’installazione teatrale site specific a Palazzo Litta che guarda più all’Inland Empire di Lynch che a Tarkovskij. Dal quale è stata infine montata l’ulteriore rielaborazione video Post-Visioni di Solaris by L’Assainato/Gazzola (si parva licet). Se non è eterno ritorno, questo, del classico di Lem…!
Tornando alla drammaturgia di Fabrizio Sinisi andata in scena nei giorni scorsi al Teatro I in chiusura di stagione è invece fedele alla trama del romanzo, che inesorabilmente ci impone d’immaginarci le visioni cosmiche e come si diceva condensa la vicenda sui tre citati personaggi principali, che si muovono su tre tavoli praticabili ma d’altezza leggermente sfasata disposti a U sul palco, su cui incombe il rossastro pianeta senziente realizzato da Francesca Barattini, mentre i protagonisti vestono costumi (di Gerlando Dispenza) di un “futuro sovietico anni ‘70” che ricorda implicitamente gli spartani mezzi produttivi a disposizione del regista sovietico per visualizzare la missione spaziale destinata comunque ad essere ricordata come “risposta russa all’Odissea nello spazio di Kubrick” (tra l'altro ritornato al cinema pochi giorni fa per il suo cinquantenario).
Del resto, come dice Kris: “l’uomo non ha bisogno di conoscere altri mondi. L’uomo ha bisogno di uno specchio” (e non certo per controllare il proprio outfit spaziale!).
Ed è appena il caso di osservare che – solo un anno dopo il romanzo di Lem (anche se in Polonia, avrebbero detto Fruttero e Lucentini, è probabile veder atterrare gli ufo quanto a Lucca!) – l’inglese Ballard avrebbe fatto di una massima sostanzialmente analoga il manifesto della new wave della fantascienza speculativa.
Ma qui si aprirebbe un altro “oceano senziente”...
Mario G
PS: la locandina riprodotta in apertura non si riferisce alla tenitura appena conclusa al Teatro I ma a quella riminese del 2017.