Titane (locandina in alto, trailer qui sotto) è uno di quei film che mi fanno uscire dalla sala dicendo “sono stato preso in giro da un’intelligenza superiore”: coniai la definizione nei ’90 per un Greenaway, nel tempo è valsa per Izo di Miike, Inland Empire di Lynch, Madre! di Aronosfky o per Holy Motors di Carax, che col film della Ducournau ha in comune una visualizzazione non comune delle identità (e sessualità) liquide che colano lungo le strade del nostro presente, oltre alla fascinazione per il rapporto con le auto.
Metallo e sangue
Il film inizia dall'epocale Crash di Cronenberg, con una bambina che causa un incidente sull’auto del padre (che ascolta Wayfaring Stranger dei 16Horsepower alla radio), viene operata e le viene impiantata la piastra di titanio del titolo, che deve avere un potente influsso sulla sua psiche, dato che appena uscita dall’ospedale abbraccia e bacia l’auto che l’ha quasi uccisa.
Divenuta una lap dancer trentenne, Alexia (la plastica, duttile Agathe Rousselle) ha rapporti soddisfacenti solo con le macchine, su cui balla nelle sue performance in un salone automobilistico: con gli umani è rabbiosa e insensibile: non dialoga con la famiglia e stermina senza pietà i partner occasionali che tentano l’approccio con lei, di ambo i sessi. Fa una strage di coetanei quasi tarantiniana al suono di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli.
Siamo dalle parti di Henry, pioggia di sangue, anche se Crash è sempre dentro di noi, e soprattutto di Alexia, che si scopre incinta dell’auto in cui ha avuto l’unico momento di passione sfrenata. Anzi, dietro di noi, perché Ducournau va oltre il Canadese: l’auto non è più feticcio erotizzato, è essa stessa corpo impregnante. Ad Alexia si gonfia la pancia, ha le nausee e sanguina... olio lubrificante!
Vedendo affissi i manifesti della polizia col suo identikit di serial killer, decide di rinascere in una nuova identità: quella di un bambino maschio, sparito all’età di 5 anni e mai più ritrovato dalla famiglia. Dopo una sbrigativa e brutale cancellazione dei propri tratti femminili nel bagno della stazione, Alexia convince facilmente il padre del bambino di essere il malconcio adolescente misteriosamente sparito ormai 17 anni orsono e ora misteriosamente ricomparso in stato confusionale (e qui ci troviamo in un cambiamento d'identità sessuale che potrebbe farci lontanamente ricordare un Les Garçons sauvages di Bertrand Mandico al contrario).
Il padre – il massiccio, virile Vincent Lindon – è il militaresco comandante di una stazione dei pompieri: ambiente esclusivamente maschile, fin testosteronico, muscoli scolpiti e machismo spinto. La regista riprende i corpi scultorei dei giovani pompieri ballare selvaggiamente una techno quasi industriale fra loro nelle loro feste in garage. Vincent deve mettere in gioco tutta la sua marziale autorità per far digerire alla squadra quel figlio ambiguo che qualcuno immagina gay, qualcun altro comincia a sovrapporre all’identikit della serial killer ricercata dalla polizia, che balla sinuoso/a come una spogliarellista sul tetto dell’autopompa (ancora su Wayfaring Stranger, nella versione femme fatale di Lisa Abbott).
Corpi soli
Due solitudini disperate, “titaniche” (l’altro significato del titolo), impossibili, s’incontrano, si annusano circospette come animali (alieni) braccati, alla fine si accettano per quello che ormai è chiaro che biologicamente non possono essere: un padre e un “figlio”, ormai in procinto di partorire... cosa lo scoprirete voi stessi nel truce quanto tenerissimo finale, che completa quello che mi sento di definire body horror emozionale (e stavolta la definizione è nata proprio in sala durante l’anteprima stampa di ieri sera). Forse davvero "il cinema di domani", come dice Marzia Gandolfi nella recensione su MyMovies. Perché – come spiega la Ducournau stessa nella bella intervista dedicatale da Olivier Père su Nocturno di agosto 2021 a margine dell’apoteosi a Cannes – nel suo film l’aspetto horror è piegato alla sofferta ricerca di una nuova forma d’amore, al di là del genere/gender. Di qui il “deciso ottimismo” di cui parla lei nell’intervista, pur al fondo di un film cromaticamente cupo e sofferto quanto pochi.
Per metterla in scena, la regista/sceneggiatrice francese ha liberamente frullato elementi di cinema “di genere”: fantascienza ballardiana, horror e slasher, performance danzate alla Climax di Noé, in una miscela che solo al primo sguardo può sembrare follia gratuita autocompiaciuta pour épater le bourgeois, mentre in realtà Ducournau mira a sabotare i confini del genere quanto quelli del gender si vanno sfrangiando nella società attuale prima ancora che nella sua pellicola. E ha lavorato molto sui corpi, sia quello della ballerina-killer Agathe Rousselle, muta per buona parte del film, sia quello del roccioso Vincent Lindon, pompiere macho così bisognoso di salvare una vita per superare il senso di colpa che lo spinge ad infliggersi dolorose iniezioni di steroidi.
Suoni mutanti
Sviluppato attraverso – parole della regista – un processo di successive riscritture dalla sceneggiatura al set (con libertà d’improvvisare rispetto a quanto già scritto), dal girato alla postproduzione e poi alla (consustanziale, incombente) colonna sonora, non possiamo non spendere qualche parola anche su quest’ultima: un mix bislacco e vertiginoso che spazia dal blues al trip hop – le due versioni di Wayfaring Stranger – dal pop anni ’60 – la Caselli ma anche gli Zombies di She’s not there (titolo metaforico assai) – all’alternative rock dei Kills, dal synth pop (Future Islands) alla techno più radicale, fino ai corali di Bach per la Passione secondo Matteo e all’ardito, sempre ammaliante riarrangiamento moderno della Sarabande di Händel (usata da Kubrick in Barry Lyndon) a cura di Jim Williams. Compositore inglese autore delle musiche originali, già al comando dello score del primo film della Ducournau, il cannibalico Raw (Grave) il cui successo internazionale le ha aperto le porte della libertà registica in cui ha sguazzato per Titane.
Coerentemente eterogenea come l’impianto del film, la colonna sonora mi ha indotto a riflettere sull’importanza di saper usare anche musiche aliene al proprio gusto personale, se utili per animare efficacemente una scena (come ha fatto Martinelli con Anna Oxa nel suo Jeeg Robot, per dire).
Successo e affermazione a Cannes che – con buona pace del livido Moretti sconfitto, come chiosa Manlio Gomarasca nell’editoriale sul già citato Nocturno – è anche un’iniezione di fiducia per tutti quelli che invece sguazzano perennemente nelle angustie dei rifiuti per ogni proposta che si discosti minimamente dal mainstream, e non solo nel cinema.
Noi che conosciamo bene la situazione siamo talmente eccitati all'idea che un film così abbia conquistato Cannes, che gli dedichiamo un'immagine originale creata ad hoc da RobertaG nel corso della stesura di quest'articolo in una forma di cut-up testo/immagine-carne/metallo.
Da vedere e meditare, in anteprima in versione originale con sottotitoli dal 29 settembre, poi nei cinema italiani dal primo di ottobre nella versione doppiata più familiare al pubblico nostrano (non esageriamo con gli shock, qui ce n’è già da digerire per anni!), distribuito da I Wonder Pictures. Andate al cinema, premiamo il coraggio, se ne incontra sempre meno nella cultura in questi anni pestilenziali...
Mario G