Sconcertante. Pensando e ripensando alla visione di Nope, terzo lungometraggio di Jordan Peele (a destra la locandina italiana, sopra quella internazionale), l'aggettivo più indicato per definirlo mi rimane sempre questo, sconcertante. E non tanto perché dall'horror domestico (nel senso delle ambientazioni) dei primi due film il regista si è spostato verso una fantascienza delle abduzioni aliene, ambientata nei grandi spazi aperti di un ranch con allevamento di cavalli, ma soprattutto perché - da pellicole dal sottotesto socio politico piuttosto marcato com'erano Get Out e Us - qui ci troviamo in una landa deserta anche dal punto di vista delle chiavi di lettura.
Sempre neri sono i protagonisti, una coppia mal assortita di fratello redneck e sorella glamour, eredi di una storica attività avita: l'addestramento di cavalli da impiegare nel cinema, avviata dal trisavolo e passata nelle loro mani dal padre, la prima vittima del vorace alieno incombente nel cielo sopra le loro teste che vediamo all'inizio del film.
Se i due protagonisti sono legati al mondo del cinema da radici familiari (lei, Emerald/Keke Palmer, ricorda che la prima sequenza cinematografica americana fu proprio la ripresa della cavalcata di un fantino nero), l'altro personaggio che avverte la minaccia in arrivo dalle nuvole è l'orientale Brian (Steven Yeun), ex bambino protagonista di un'orribile situation comedy dal successo nazionalpopolare in USA, che nel 1998 fu sospesa in quanto divenne "tragedy": lo scimpanzé Gordy era impazzito sul set facendo strage di attori e risparmiando misteriosamente solo lui. Brian oggi gestisce un parco di divertimenti a tema western, i cui cavalli pure a un certo punto impazziscono come attratti dal richiamo del disco volante apparso un bel giorno fra i nembi.
Il film ci mostra a più riprese il sanguinoso flashback su di lui con la scimmia-killer, senza peraltro aiutarci a capire come la follia dell'animale sia legata agli appetiti del misterioso alieno divoratore d'uomini e cavalli. L'unico appiglio (forse) è che a un certo punto il fratello allevatore O. J. (Daniel Kaluuya) capisce che il "disco volante" "non è una macchina", cioè un'astronave vettore di forme di vita extraterrestri, ma è esso stesso una forma di vita animale. Che come animale si comporta, cioè reagendo istintivamente a determinati stimoli. Di qui prenderà le mosse la strategia degli umani per difendersi dalla letale minaccia.
Strategia che comprende la collaborazione di Craig (Michael Wincott), virtuoso direttore della fotografia che partecipa al team con l'intento di riprendere l'incredibile alieno attraverso la sua speciale telecamera a manovella (azionata come ai tempi del muto), indipendente dall'alimentazione elettrica, che se va in black out per intromissione exttraterrestre potrebbe spegnersi, come appunto accade alle moderne videocamere digitali impiantate a sorveglianza del ranch.
Un'entità aliena bestialmente vorace, episodi di "follia animale" in un contesto dominato dal mondo del cinema e dei suoi strumenti-simbolo (le macchine da presa)... un ritorno agli istinti primordiali della jungla nella società dello spettacolo più volgare e kitsch della storia umana (quella americana, nera bianca o asiatica che sia la sua pelle)?
Come anticipavo, Nope rimane assai più ermetico nel concept di fondo rispetto ai suoi precursori, pur confermando il talento visionario di un regista-autore che domina fieramente (bestialmente?!) mezzi espressivi e produttivi via via più complessi e ambiziosi di quella macchina dello spettacolo che in parte celebra e in parte satireggia, chiaramente piegando l'impianto del genere a una visione assai personale. Offrendoci nella sua narrazione ellittica evocative scene con gli inquietanti pupazzi colorati mossi ad aria del ranch e un alieno dal design più originale che si sia visto su schermo da anni.
Quella indeterminatezza (od oscurità) concettuale, che alla proiezione in anteprima per la stampa all'Anteo di Milano ha lasciato perplesso più d'un giornalista, che non l'ha nascosta alla consegna dei foglietti coi nostri pareri (e all'estero ha generato anche qualche recensione negativa), rappresenta un minus del film? Non necessariamente: generi come l'horror e la fantascienza non di rado coprono con immagini d'impatto ed effetti speciali i cedimenti a cliché narrativi banalizzanti, mentre - specie quando è l'inconcepibile ad occupare il proscenio nella vicenda - un'area di non detto, non spiegato, è salutare al mantenimento del sense of wonder e anche a far partecipare meglio noi spettatori allo sconcerto dei protagonisti in scena.
Perché se un misterioso UFO ti risucchia verso il cielo mentre cavalchi nella tua prateria non è detto che il "quadro generale" della situazione ti appaia chiarissimo, e se arrivasse la spiegazione che la belva oltremondana è stata richiamata - che so - dalle frequenze elettromagnetiche generate dalle macchine da ripresa di un set cinetelevisivo, questo spiegone (rituale nel genere) non farebbe che sgonfiare la suspense che la situazione inspiegabile ti genera. E che invece Peele ( a sinistra in uno scatto dal set) governa benmissimo, facendocela provare distintamente quando la provano i suoi personaggi.
Il che, quando hai già solcato per anni le procellose rotte del fantastico cinematografico, è merito non da poco (notate che in questa recensione non abbiamo introdotto nessuna citazione di film analoghi!). E il "messaggio" allora? Insomma, 'sti neri sono più buoni o più cattivi dei bianchi al cospetto della minaccia extraterrestre? E l'alien stesso, alla fine, è un bianco o un "negraccio cattivo" come nella vecchia Hollywood WASP?
A voi l'ardua sentenza, qui tocca metterci del proprio. Ma l'incertezza ideologica non vi arresti ai "bastioni di Tannhäuser" della biglietteria: Nope merita sicuramente la visione - e l'apprezzamento del molto soul in colonna sonora, insieme ai new waver svedesi Viagra Boys - come l'inevitabile discussione che seguirà all'uscita.
Mario G