Ian, un volgare giornalista di cronaca sui quarant’anni, razzista e arrogante, ha portato in un hotel Cate, sua giovane ex amante. La ragazza ha accettato di seguirlo perché l’ha sentito disperato ed è lì infatti che Ian le confessa di essere condannato a morte da un cancro e braccato da misteriosi nemici. Non ha più nulla da perdere e vuole disperatamente il suo amore, ma proprio mentre queste richieste svelano tutta la sua fragilità, divengono via via violente: Cate viene aggredita verbalmente e fisicamente. E poi stuprata.
Saremmo tentati di credere di stare assistendo a un dramma mélo di passioni estreme, un Tennessee Williams dell'era del pulp, se all'improvviso la storia non cambiasse registro con uno scarto tanto ardito quanto sottile.
Ian detta sghignazzando un articolo di nera sull'efferato omicidio di una giovane prostituta... siamo in un thriller di serial killer? Poi allude a sue misteriose attività per il governo, il potere... controllo di persone, di oppositori... ma allora ci troviamo in un noir spionistico, la Kane prevedeva le intercettazioni di cui leggiamo ogni giorno?
Non lo sapremo mai, perché di colpo irrompe l'impossibile: no, né mostri né alieni né nebbie assassine, esplode la guerra. Guerra di chi, contro chi? Chi invade l'Inghilterra? L'autrice scriveva influenzata dai reportage sulla Jugoslavia, ma il testo si mantiene giustamente astratto. E' La Guerra quella a cui assistiamo, quella di sempre: la caduta di Troia, l'occupazione di Bagdad...
Irrompe nella stanza un soldato di qualunque divisa e replica su Ian gli abusi prima inflitti a Cate, rievocando ancora una volta gli orrori di tutte le guerre, compresi quelli da lui stesso subìti in passato, quelli che si reitereranno all'infinito nella mostruosa faida cosmica della Storia (subisco-mi vendico), in un crescendo di violenza che non ci risparmia sodomia, cannibalismo e orrori da gotico moderno.
Anche lo spazio scenico si adegua al clima emotivo: la stanza d'albergo si trasforma in un attimo in una trincea di ruderi e, alla fine, implode silenziosamente in un surreale sudario di morte.
Fuori lampi, rumori di battaglia e piogge bladerunneriane. Gorgoglii di jungla, di belve che s'accaniscono sul fiero pasto.
Non è un thriller, non è fantascienza postatomica, non è un horror, è Teatro, ma il finale ve lo andate comunque a scoprire da soli: il "Grazie" su cui cala il sipario vi offrirà - quando già lo sgomento vi starà sopraffacendo - anche il filo d'erba cresciuto in un lager di scheletrica speranza.
Non è questo e non è quello, ma al contempo è tutti questi generi. Parlandone proprio con il regista Elio De Capitani al termine, lui concordava con la mia impressione che gli spiazzamenti che ci riserva Blasted (una parola che riesce a significare contemporaneamente 'ubriaco', 'esploso' e un leggero insulto in inglese) non siano poi così lontani dagli svisamenti dimensionali dei racconti di Philip K. Dick.
Attenzione: si possono vedere diversi generi in controluce, ma qui siamo a mille miglia dal pulp inteso come 'gioco' postmoderno e ironico di contaminazione dei generi. L'autrice, Sarah Kane (sulla cui breve, folgorante e drammatica carriera e iter esistenziale v'informa a dovere il bellissimo libretto di sala ricco di contributi di spessore), non amava la violenza tarantiniana, pur non ritraendosi da nessuna bruttura in scena. Perché il filo che la guidava è il discorso etico, non il pastiche stilistico: la necessità di mostrare per scuotere le coscienze e scongiurare le tenebre dell'anima portate sulla scena. Cioè, in definitiva, la funzione morale primaria del teatro a partire dalla tragedia greca, cui questo lavoro può tranquillamente essere accostato senza timori reverenziali.
Uno dei non pochi momenti folgoranti dello spettacolo è quello in cui il soldato interroga il giornalista sul suo ruolo: è una spia? Con chi sta? E' un soldato anche lui, ha ucciso a modo suo. Non lo capiremo chi è veramente, ma per un istante i due sembrano scambiarsi i ruoli, le identità, apparire palesemente quel che sono, due indistinguibili facce del medesimo orrore storico, politico, cosmico: due messaggeri della stessa Morte in abiti diversi ma intercambiabili. Come le loro vittime, le loro amate rimpiante: che su entrambe le sponde sono donne violentate, torturate senza motivo, uccise per gusto dalla belva liberata dalla Guerra. Moltissimi sono gli agganci alla realtà contemporanea di questo testo, scritto nel '93 dalla Kane e messo in scena da De Capitani in un capolavoro che a mio parere si piazza di slancio fra i vertici dell'Elfo/Teatridithalia da quando io seguo la compagnia, servito da un trio d'interpreti che restituisce tutta la tensione drammatica senza quasi mai un calo emotivo.
Occorrerebbe rivederlo, leggerlo sulla pagina per dirvene compiutamente. Ve ne citerò a caldo uno, che ci spalanca gli occhi sull'orrore televisivo, fiero pasto che accompagna le nostre cene: il dialogo fra giornalista e soldato invasore che rievoca le tragedie che hanno spinto lui alla violenza. Il giornalista, già ridotto a vittima, gli sbatte in faccia che comunque della sua sua storia "non frega niente a nessuno". Quello che interessa dev'essere un fatto di cronaca, a tinte forti, meglio se morboso, e soprattutto - quel che più conta - privato.
Perché questo è il 'circo' moderno, mica si riflette sul'orrore cosmico di cui siamo prigionieri tutti, no? Bisogna solo sapere se l'assassina di Meredith può essere la sua amica!
Humour nero a parte, spettacolo obbligatorio. Buone visioni.
Mario
N.B. segnaliamo che durante la Festa del Teatro, nel week end 25-26 ottobre, i biglietti vanno a 3 euro.