La migliore offerta si inscrive agilmente tra i titoli più squisitamente autoriali della filmografia di Tornatore, incanalandosi su una linea di pensiero filmico che muove soprattutto da titoli come “L’uomo delle stelle” e “Una pura formalità” più che dagli eccessi smaniosi (qui comunque presenti in qualche ridondanza stilistica) di “Baaria” e de “La leggenda del pianista sull’Oceano”.
Nonostante le pastoie espressive di una magniloquenza che ritorna come gabbia e come tranello pressoché fisso nel cinema tornatoriano, alla costante ricerca di un “effetto” spesso e volentieri confinante con la retorica del culto dell’immagine, si respira nitidamente l’odore di zolfo dei suoi temi più cari. Anzitutto, l’ossessione tattile e appassionata per l’arte come specchio diretto del grande amore del regista per il cinema: in fondo, dai brandelli di pellicola di “Nuovo Cinema Paradiso” agli ingranaggi dell’automa di Jacques de Vaucanson ritrovati qui a poco a poco il passo è breve, e in tema di robot riesumati non può non tornare in mente un grande recente film “cineamorevole” come “Hugo Cabret” di Martin Scorsese.E poi l’insistenza sul voyeuristico guardare dalla fessura, che rimanda direttamente a “Malèna” ma anche alla brillante definizione di Gianni Canova, il quale in una raccolta di recensioni abbastanza recente sugli ultimi 10 anni di cinema italiano (Cinemania, 2010, Marsilio) ha definito “iconofagi” tutti i personaggi di Tornatore; senza tuttavia dimenticare neanche quel tanto di sé che Tornatore riversa in ogni suo personaggio: il Virgil Oldman di Geoffrey Rush è irascibile, geloso delle sue proprietà, permaloso quasi quanto Tornatore e quasi come ogni buon siciliano. Oltretutto è decisamente un personaggio ombroso e un solitario, perfino superstizioso in conformità con angoli risaputi della personalità dello stesso Peppuccio, che non inizia mai a girare nei giorni dispari, giusto per dirne una.
La migliore offerta è dal canto suo un film assolutamente stratificato, in grado di riflettere in modo non banale sull’arte come falso in cui si va a instillare il germe della verità (il falsario che non resiste alla tentazione di inserire qualcosa di “suo” nella copia conforme), probabilmente allo stesso modo in cui una certa, particolare e cerebrale forma di bellezza può essere ritrovata nelle imposture e nei mezzi patinati con cui il regista siciliano è solito infarcire il suo cinema. Una volta giunti a questa consapevolezza si perdona molto, compresi gli snodi forzatissimi che contraddistinguono tanto le psicologie dei personaggi quanto i colpi di scena, in virtù di una più grande visione d’insieme in cui l’ingranaggio oltre che oggetto è anche simbolo e mezzo espressivo.
A sormontare e coronare il tutto una “morale” magari didascalica ma di sicuro tutt’altro che banale: la vita inganna, l’arte no. Con la consapevolezza che l’amore per una donna, sublimato, idealizzato, angelicato, è in grado di tradire e di far male molto più dell’amore per l’arte, congelato da un controllo manuale e prensile e di gran lunga più facile da tenere sotto controllo, nonostante si tratti in entrambi i casi di due forme di passione diverse ma parimenti brucianti, travolgenti e ossessionanti.Il finale, lunare e inquietante, culmina in un vortice espressivo ben più affastellato del resto del film ma al contempo lenisce il mesto pessimismo di fondo con un’apertura speranzosa e insperata verso il futuro.
Più che un thriller esangue, La migliore offerta è un mélo di esondante passione con delle punte comunque molto flebili di nero compositivo, tutto sommato lontanissime dall’anima sordida e infernale di “Una pura formalità”.
Dietro la confezione algida, in fondo manierata e tutta mentale, il cuore pulsante del cinema di Tornatore e delle sue fondamentali spinte motrici alla lunga emerge e lo si riscopre a battere. Ma quanta fatica.
Davide Stanzione