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Già, avete letto bene, proprio Baaria. Film meno posthuman non ci poteva essere, vero? Già.
Ma noi non ci fermiamo di fronte a niente: a volte, definire una propria identità critica passa non solo dalla scelta di analizzare approfonditamente film di genere come Halloween, Orphan o Moon, District 9 (per dire quelli che trovate in home page ora) – generalmente presi sottogamba dalla kritika seriosa – ma anche dall’avere un proprio punto di vista personale su un’opera di vasta popolarità del momento.
Baaria, il blockbuster nazionalpopolare di Tornatore è questo genere di opera al momento attuale. Come spesso accade con Tornatore (e non solo con Tarantino o Von Trier), anche i suoi melodrammi corali sul Sud e sulle ‘radici’ dividono i pareri fra spettatori entusiasti e commossi e scettici che deprecano lo stile “Mulino Bianco” con cui il regista punta al grande affresco, anche esportabile all’estero in funzione dei cliché dominanti su quest’Italia da cartolina.
Ecco perché abbiamo preso la palla al balzo quando abbiamo scoperto che Walter (d’origine pugliese) aveva visto il film e si schierava sostanzialmente con questi ultimi, mentre Crixi (milanese) s’era commossa senza riserve all’epos di Tornatore: un curioso contrasto critico-geografico-culturale di cui vi diamo conto qui di seguito, giustapponendo i loro pareri in un’inedita doppia recensione.
La parola agli avvocati, come dicono nei legal thriller americani:
PRO - Crixi
Corre a perdifiato quel bimbo, chissà dove va, a cosa va incontro, da cosa fugge. E’ un piccolo siciliano lui, i colori attorno lo raccontano: il cielo turchese, la terra ocra, i muri bianchissimi.
Corre incontro al futuro, un futuro che è già presente, il futuro di un paese che è il nostro, fatto di mille contraddizioni e di cui Baaria pare diventare il fulcro, un paesino a rappresentare una nazione attraverso un secolo di storia. E cosi quel bimbo diventa tutti i bambini, scagliati come una freccia verso un mondo di cui nulla sanno, di cui forse hanno molta sete e che presto si mostrerà loro in tutta la forza dirompente che è sostanza della realtà. Quel paese che Tornatore ha pedissequamente riprodotto a pochi kilometri da Tunisi, grazie allo sforzo titanico prodotto dal mecenate tunisino Tarak Ben Ammar e dalla Medusa Film, si fa simbolo, cardine e decumano della vita di ognuno, con le sue botteghe che crescono, invecchiano e poi si rinnovano, le strade polverose solcate dai carretti che si riempiono di moto e auto, i visi immacolati che si increspano, i figli che diventano padri e i padri che diventano nonni.
Seguendo la linea dei suoi ricordi il regista non parla di sè, ma attraverso i suoi occhi, la carne su cui sono rimasti impressi sogni, speranze, tragedie, gioie, dipinge un affresco corale che come lui stesso afferma è una commedia all’italiana, dolce-amara, divertente e malinconica. Ha un respiro sostenuto, quasi frenetico a riecheggiare il galoppo del secolo scorso, coi drastici mutamenti che lo hanno caratterizzato, non si sofferma né sul dolore né sul tripudio ma in alcuni momenti sembra rallentare per darci il tempo di assorbire il colpo, quello del tempo che passa, inesorabile.
CONTRO - Walter
Questa che sto per scrivere sarà una stroncatura dell'ultimo film di Tornatore Baaria di cui ovviamente raccomando la visione, perchè stimo Tornatore che ha già dimostrato di essere un bravo regista. Il film tra l'altro è ben prodotto e si vede nella qualità delle immagini, nel cast, nel nome altisonante di Morricone per la colonna sonora. Costato 25 milioni di euro più o meno, si dice.
Però quello che andrete a vedere (se non l'avete già visto) è un Kolossal per la tv a puntate ridotte in 2 ore e mezza di film. A parte l'inizio onirico e drammatico, il film scivola via presto sui binari di sentimenti facili, personaggi stereotipati, recitazione patinata. Una spruzzata “favolistica” a metà tra l'epopea storica e la commedia all'italiana. Avere ritmo è una gran qualità, ma se quel ritmo poi ti porta a non approfondire niente e a fare un intreccio di frammenti drammatici e gag, beh insomma lascia l'amaro in bocca. Sulla carta era un gran film, ma si è evitato chirurgicamente di farne qualcosa che facesse riflettere. L'approfondimento è evitato come una malattia pandemica, altrimenti si rischiava un film d'autore e il pubblico ne avrebbe risentito. Perchè questo pubblico vuole essere preso in giro, coccolato nei suoi stereotipi, dove i buoni sono buoni, i cattivi sono cattivi e l'eroe ci passa attraverso senza danni. Un pubblico che non vuole più capire i motivi della tragedia che si consuma in Sicilia, una tragedia attuale. A questo tipo di pubblico piace pensare che quella Sicilia appartenga al passato, che il comunista abbia trovato un posto di lavoro e che gli anziani che giocano a carte nei bar invece di leggere Proust, sono l'icona della nostalgia. Così insomma c'è stato il lieto fine... è così commovente con il treno che parte e va... il padre che rivede se stesso negli occhi del figlio... che soap ragazzi! Certo ti commuovi, ridi o meglio sorridi... e diamine... gli attori sono bravi e così famosi! Già famosi, ma non sarà che forse sono più forti dei personaggi? Sarà stato un caso ma il pubblico in sala esclamava: “guarda la Bellucci” oppure “guarda c'è Frassica!”, invece di vedere il democristiano arrendevole e trasformista. Poi l'attore è così bello, l'attrice è così bella i figli così carini, mancava l'uovo kinder.
Inoltre, escludendo la parte iniziale dove la mafia picchiava i bambini nei campi se non lavoravano o i contadini se protestavano, la violenza è nascosta, intuita. Così la tensione sociale diventa una commedia all'italiana, la leggerezza calviniana superficialità, la politica? Affresco. Tre generazioni un tempo immane da raccontare, così grande da smarrirsi: per questo alcuni l'hanno definito prolisso, come se si fosse dilungato su alcune questioni marginali, il regista.
Le motivazioni dei personaggi si perdono insieme al tempo che scorre ma non sapremo mai perchè. Forse perchè i comunisti hanno famiglia e vogliono una carriera sicura? Sarà. Ma l'epopea filo-comunista a tratti somiglia più ad “Uccelli di Rovo”. Eppoi: “comunista” ma fino a che punto?
Il nostro eroe si imborghesisce e alle lotte preferisce le gerarchie di partito, eppure lui era un puro, cosa lo ha cambiato così? Il matrimonio? La paura? Chissà. Oppure il nostro eroe così puro doveva essere un antieroe da subito? Forse. Sin dall'iscrizione al partito si capisce che l'interesse per il “comunismo” non è cristallino, ragionato, partecipato, ma è come darsi un tono con quelle “riunioni” segrete, come alla ricerca di una superficiale emancipazione dalla condizione di “povero contadino/pastore” invece che rabbia sociale per i soprusi, invece che speranza “oggettiva” di essere vicini a cambiare le cose. I comizi poi, dovevano essere di un uomo che sfida i potenti locali, sembrano invece una passeggiata ingenua in parole vuote e retoriche che non si realizzeranno, perchè Baaria non ci mostra le ragioni di quei comizi, delle parole, le lascia alla nostra immaginazione. Eppure sarebbe bastato approfondire un po', inserire le figure a cui contrapporsi con le loro ragioni invece di semplici sguardi occhiuti e accigliati dalla distanza. Che storia del comunismo italiano è questa? Fa specie sentir dire al noto critico Silvio B. la cui azienda di famiglia, la medusa, ha prodotto il film che: “il protagonista si iscrive al partito comunista ma è un comunista ideologicamente puro che vuole cambiare il mondo, poi va in Russia e si accorge degli errori che il comunismo ha prodotto in Russia...”. Non so se sia stata proprio questa l'intenzione di Tornatore, di sicuro la storia che lui mette in scena non è la storia di un comunismo che ha rappresentato cultura e l'unica coscienza civica di alcune città ma “pressappochismo”. L'unica scena che rende giustizia alla “Storia” è quella dove il protagonista elenca i nomi di tutti i paesi dove è stato ammazzato qualcuno. Qui si scorge la cifra della difficoltà di fare un film in Sicilia, dove la commedia è una sfida intellettuale alle ragioni del dramma.
Peccato persa l'occasione di fare un'opera “che cambiasse” la percezione stereotipata del Sud o del comunismo italiano. Meglio un lavoro come “i cento passi”, dove il dramma è fatto con il dramma, dove la sceneggiatura è documentata... l'eroe è eroe anche se sconfitto, ma almeno si evita di inseguire l'epopea di un borghese “comunista” in fuga verso i palazzi romani... o forse si voleva parlare di come sia nato lo spirito socialista-craxiano della sinistra italiana? Difficile dirlo.
Di certo non si può parlare di un'opera poetica, ma di accenni, segnali.
Forse avrebbe potuto rispolverare la poesia di “Nuovo Cinema Paradiso” dove la Sicilia è trasfigurata e il sud di Tornatore è un paese inventato ma nonostante questo altrettanto vero e intenso. Certo che se avesse usato lo stesso registro a quel punto il Kolossal non sarebbe stato più possibile e forse richiamare in sala spettatori per almeno 25 milioni di euro, un'utopia. E se si fosse risparmiato sul cast?
Non me ne vogliano gli attori, pur bravi, ma c'era davvero bisogno di attingere a tanti volti blasonati? Tra le altre cose anche così poco “siciliani” (a parte la pura anagrafica) per la loro appartenenza a quel jet set milanese/televisivo... per non parlare del linguaggio “aureo” adottato.
Lo so questa stroncatura è eccessiva nei toni, e Tornatore è stato vicino a fare un gran film e non mi stupirei se in futuro ci regalerà ancora opere importanti.
Ci sono state disfatte peggiori, come quella di Woody Allen quando ha scritto “Match Point”.
A dimostrazione della mia eccessiva durezza vi anticipo che con molta probabilità Baaria vincerà qualche Oscar. Anzi, ne sono sicuro.
Ora, a voi… l’ardua sentenza. Lasciate i vostri commenti nello spazio qua sotto e… buone visioni.
Posthuman Staff