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Captive State – se i “Superni” sono cattivi

Written by  21 Mar 2019
Published in Cinema
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In un serrato incubo fantascientifico, Rupert Wyatt ci trascina senza fiato nella lotta per la resistenza di un manipolo di oppositori a una orwelliana dittatura aliena sul nostro pianeta. In sala dal 28 marzo.


ClarkeMagritteLe Guide del Tramonto (Arthur C. Clarke, 1953, Urania Collezione 162, copertina qui a sinistra) sono planate sul pianeta Terra, con la loro curiosa astronave rocciosa (foto sotto) che sembra un dipinto di Magritte (Il castello dei Pirenei, 1959, riprodotto a destra) e, come nel classico di Clarke - in cui appunto gli extraterrestri Overlords vengono tradotti con Superni - parlano di pace, armonia e progresso per la confusa e primitiva (per loro) comunità dei terrestri. Al contrario del libro, però, sono degli autentici despoti: hanno preso il controllo totale del pianeta e ne prosciugheranno rapidamente tutte le risorse, ha capito lo sparuto manipolo di oppositori underground che tentano di contrastare la dittatura delle “blatte” (così vengono chiamati gli alieni). Sperano di riuscire ad assestare loro un colpo plateale con un attentato che finalmente risvegli le coscienze: “accendere un fiammifero, scatenare una guerra”, dicono loro.

captiveMa questi ribelli sono pochi e devono tenersi accuratamente nascosti, perché il potere politico è asservito (sì, persino quello degli americani “difensori del mondo”!): le masse credono alla propaganda aliena delle “magnifiche sorti e progressive” cui la “collaborazione” terrestri-alieni starebbe dando vita e la polizia li marca stretti, sotto la guida dell’imperscrutabile Mulligan (il bravissimo, misurato John Goodman, maschera da Renato Pozzetto tragico).
captiveSfuggire alle capillarissime tecnologie di controllo di ogni identità, attività, spostamento obbliga il giovane Gabriel (l’Ashton Sanders del premiatissimo Moonlight) a muoversi rapidamente e fuggire continuamente, nella speranza prima di scappare altrove con un amico (il rapper Machine Gun Kelly) e la fidanzata, poi – dopo aver scoperto che il fratello Rafe (Jonathan Majors), creduto morto in una recente repressione è invece vivo e ancora attivo – di organizzazione il nuovo, più clamoroso attentato per colpire direttamente il cuore del nemico alieno.

captiveCi riuscirà? Lo scopriremo solo nell’ultima sequenza, insieme ad un colpo di scena sullo sbirro Mulligan talmente sorprendente che non va assolutamente svelato. Fino a quel punto, il film di Wyatt è una serratissima macchina da suspense cospiratorio che marcia a giri sempre elevatissimi, al punto da metterti talvolta in difficoltà nel seguire la successione degli eventi, le storie e i background dei diversi personaggi: ad esempio, perché Mulligan incontra più volte una donna (Vera Farmiga, qui a destra), che ci appare sempre nel suo salotto rétro un po’ come un’affettuosa prostituta di lusso, ma sembra a lui legata da un sentimento ben più forte? Dove finisce dopo le prime scene la fidanzata del protagonista, riluttante alle sue perniciose manovre? Il ritmo è talmente martellante che non c’è tempo per molte spiegazioni, così come ci vengono (apprezzabilmente) risparmiati gli spiegoni un po’ retorici di tanti fantafilm sulla situazione, come siamo arrivati sin qui, chi sono i buoni e i cattivi.

captiveGli appassionati di fantascienza, oltre al citato capolavoro di Clarke, in Captive State possono rinvenire cine-tracce di:
- Alien – nulla a che vedere con l’intruso spaziale sterminatore, ma dal capolavoro di Scott Wyatt trae la lovecraftiana massima per cui la maggior paura umana è ciò che non si vede. Qui gli alieni sono degli orribili scimmioni irsuti, verso la fine dei temibili centurioni in metallica armatura (a sinistra), ma complessivamente si vedono pochissimo (con gran sollievo per il budget produttivo indie di 25 milioni di dollari), così aumentando la loro incombenza immanente, amplificata dal servaggio delle autorità terrestri.
- Matrix – qui la tecnologia è quella (perlopiù già esistente, basti visitare un aeroporto USA) dei controlli digitali d’identità, posizione etc. di ogni moderna tecnocrazia fintodemocratica, ma dal cult dei Wachowsky il regista ha tratto l’idea dell’entità non umana che intende usare la nostra specie come serbatoio di risorse di cui servirsi senza remore (malcelato riferimento all’apocalisse ambientale che nella realtà noi terrestri ci stiamo preparando da soli?): “Tutto quello che ti dicono è falso”.
- District 9 – il geniale apologo sulla diversità di Neill Blomkamp è forse il riferimento più diretto per Captive State, solo che là gli oppressi erano proprio gli alieni. Però il quadro di una metropoli (qui è Chicago) plumbea, devastata e fumante ha più che qualcosa in comune con gli slum della Johannesburg del regista sudafricano (e con la Londra de I figli degli uomini di Cuarón). E sarà sicuramente d’impatto (forse non per caso), specie per il pubblico dell’attuale “America first”. Che abbia qualcosa da dire anche ai fan del “prima gli italiani”?

captiveWyatt, dicevamo, torna agli extraterrestri cattivi e invasori ma senza rifare l’ennesima versione della Guerra dei Mondi (la cui duratura influenza già deprecava Ballard nel ’62): la posizione astutamente defilata degli alieni consente infatti non solo di risparmiare sugli effetti speciali, ma anche di realizzare un film sottilmente politico, in cui il pesante clima orwelliano è mantenuto assai più da autorità terrestri che dagli sfuggenti e onnipotenti alieni.
Una pellicola che ci squaderna sotto gli occhi la fine della democrazia nella demagogia, lo sfruttamento neocoloniale, il controllo maniacale di ogni individuo e gruppo potenzialmente oppositore e la brutale repressione poliziesca che quest’ultima si attira inesorabilmente.

Nel film è “tutta colpa delle blatte”: a noi meditare se ci sembra di vedere qualcosa del genere in giro già nel nostro mondo contemporaneo, in cui nessuna bizzarra roccia aerospaziale fluttua sopra le nostre teste, e chiederci allora chi sono in realtà gli “alieni cattivi” che ci schiacciano.

Ultima nota per la colonna sonora: composta da Rob Simonsen, è totalmente, pesantemente elettronica, come si conviene a un incubo futuribile; perciò vi spicca ancor di più la ripetuta riproposizione di Stardust cantata da Nat King Cole, ma nei suoi 109' passa un'autentica ridda di brani di cui è impossibile fissare gli autori nei titoli di coda: fortunatamente siamo riusciti a reperire una track list completa (per quanto da fonte ufficiosa). Di album ispirati alla fantascienza anche in generi musicali molto diversi come metal o jazz, però, si tornerà a parlare presto, restate connessi...

Mario G

Last modified on Wednesday, 27 March 2019 15:24
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