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Noi, "morbide macchine" da sempre

Written by  24 Mar 2008
Published in Riflessioni
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Nell'intervento del filosofo Alberto G. Biuso proposto all'incontro Parlare al Futuro, una profonda riflessione su "infosfera e ibridazione" collegata al corto "Con gli occhi di domani", venerdì 28 ospite della rassegna romana l'Invasione degli Ultracorti.

Avremmo voluto proporvi un reportage completo dell'incontro Parlare al Futuro dello scorso dicembre, anche con estratti video. Per vari motivi questo non è stato possibile, ma vogliamo comunque rendere leggibile a tutti l'intervento offertoci dal Prof. Alberto Giovanni Biuso, che tra l'altro collega avanzati e inquietanti argomentazioni filosofiche alla proiezione del nostro cortometraggio Con gli occhi di domani.

Argomento che ritorna d'attualità proprio oggi, che possiamo annunciarvi una nuova proiezione (stavolta romana) del nostro film, accolto dalla rassegna L'Invasione degli Ultracorti, che lo proietterà nel corso della prima serata venerdì 28 marzo, come leggete meglio QUI.

Ora, dunque... la parola al filosofo.

L’Antroposfera è da sempre ma oggi con una totale evidenza anche una Infosfera. Essa è l’insieme di luoghi e relazioni concettuali e semantiche che definiamo cyberspace. Fino a che punto le menti umane – che lo hanno creato – sono davvero padrone di questo spazio inedito e complesso? Quale figura descrive meglio tale rapporto: il dottor Frankenstein che assembla una entità che gli si rivolge contro o Pigmalione che regala la vita a una macchina inerte?


La molteplicità dell’informazione è tale da generare problemi le cui soluzioni non sono mai univoche e assolute; nel Web, ad esempio, sono sempre più decisive dimensioni e questioni come la privacy, l’anonimato, la riproducibilità, la relazione uno-a-uno, uno-a-molti, molti-a-molti. Anche la cosiddetta Internet Culture presenta una gamma di prospettive molto differenti che Wesley Cooper sintetizza nei termini di utopia, distopia, strumentalismo. Fenomeni come la posta elettronica, le chatrooms, i newsgroup, le mailing list, la messagistica istantanea, le teleconferenze, si possono riassumere con la formula Human-Computer Interaction (HCI). Quest’ultima si declina: a) in una prospettiva secondo la quale i computer sono e rimarranno soltanto degli strumenti, utilizzando i quali l’umanità sarà rafforzata nei suoi poteri e facoltà; b) in un progetto di lenta ma inevitabile ibridazione della mente umana con un più potente insieme di menti artificiali.

La Robotica

La robotica rappresenta il tentativo di integrare in una macchina percezione, movimento, azione in un modo che almeno sembri intelligente.
La direzione va nel senso di una fusione fra ingegneria genetica, nanotecnologie e robotica (GNR), e quindi la bionica.


Ibridazione

Va intesa sia come evoluzione organica delle macchine sia – e soprattutto – come amplificazione dell’intelligenza umana attraverso l’integrazione con le macchine, in particolare coi computer, mediante un contatto diretto fra le onde elettroencefaliche e il software.
Le ricerche empiriche in corso a Boston, a Monaco di Baviera, al Georgia Institute of Technology, coniugano tra di loro neuroni ed elettrodi dando vita a veri e propri neurocomputer, che costituiscono la realtà attuale dell’ibridazione fra il digitale e l’atomistico, del post-umano generato dalle nanotecnologie, da ciò che Baudrillard definisce come la simulazione attraverso la miniaturizzazione, mediante tecnologie, cioè, in grado di lavorare su scala atomica. Secondo i sostenitori di questa particolarissima strumentazione, macchine di scala nanometrica potranno entrare nelle cellule umane allo scopo di combattere efficacemente molte malattie. Il corto “Con gli occhi di domani” è anche una efficace espressione di tali possibilità.

Cyberantropologia. Tra bioputer e innesto dentro i nostri corpi e all’interno del codice genetico degli elementi allotri, in grado di potenziare la percezione, la memoria, l’insieme delle risposte immediate e di lungo periodo alla complessità dell’ambiente in cui viviamo.
In realtà siamo da sempre delle nature ibride e contaminate con l’alterità macchinica e animale, compresa quella umana. Siamo, secondo l’efficace definizione di Andy Clark, dei Natural-Born Cyborgs.

La fisicità umana è intrinsecamente protesica. Le prime e decisive macchine cibernetiche siamo in realtà noi stessi. Lo siamo da sempre, poiché sin dall’inizio abbiamo avuto bisogno per sopravvivere come genotipo di contaminarci con elementi posti al di fuori dei nostri corpi naturali. Lo siamo sempre più nel tempo delle tecnologie informatiche dominanti, senza le quali la vita sociale e quindi individuale smetterebbe immediatamente di funzionare facendo piombare gli organismi collettivi nel caos. È quindi vero che all’inizio del XXI secolo, «in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica» (D. J. Haraway, Manifesto cyborg, Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo [1991], Feltrinelli 1995, pagg. 40-41)

L’ibridazione è un processo che dura da millenni, come dimostra di aver compreso Philip Dick quando afferma che «forse siamo noi umani – teneri e buoni d’aspetto –con i nostri occhi pensierosi, le vere macchine» (Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli 1997, p. 268). Una reale I.A. deve infatti consistere anche nella percezione fisica del mondo attraverso il corpo, nella simbiosi fra la capacità di calcolo dei computer e quella emotiva e fenomenica dell’essere umano, in un incontro «a metà strada», come si esprime Dick, fra noi e le nostre macchine. Molto per tempo e con grande acutezza, lo scrittore statunitense ha raffigurato la realtà già in qualche modo in atto dell’ibridazione: «una graduale fusione della natura generale delle attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati» (Mutazioni, 224). Se la mente, infatti, è un processo biologico assai complesso, senza un corpo non si dà alcuna mente concepibile. Se pure fosse possibile simulare un’emozione su un supporto di silicio, essa rimarrebbe qualcosa di molto diverso rispetto a quanto accade nel protoplasma.

Parlare al futuro / Con gli occhi di domani

Il futuro probabilmente sarà costituito non da robot diventati padroni del mondo o da aneroidi, ma da quella fusione di biologico e protesico che l’umanità è da sempre. Non bisogna, infatti, confondere entità assai diverse come – appunto – i robot, gli androidi e il cyborg (Naief Yehya, Homo Cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Elèuthera, 2004).
I robot esistono da decenni e lavorano instancabilmente in contesti molto diversi. Essi sono il puro artificio di una operatività limitata a obiettivi anche assai complessi ma ben specifici. I robot che già esistono possono essere molto potenti ma sono totalmente privi di adattabilità omeostatica e di coscienza.
Gli androidi, al contrario, rappresentato il futuribile di robot antropomorfici e consapevoli, anche se privi di elementi organici.


Il cyborg, invece, costituisce il presente e la stessa storia dell’umanità, poiché è la fusione tra un organismo biologico e una macchina o una funzione che modifica la struttura di base dei corpi. Un individuo vaccinato, ad esempio, è anch’esso in qualche modo un cyborg perché il suo organismo è stato in questo modo riprogrammato allo scopo di difendersi da vari tipi di infezione; chiunque si unisca provvisoriamente o definitivamente a una macchina è un cyborg, dall’automobilista con le mani sul volante e i piedi sui freni al malato di cuore dotato di pacemaker, dal ciclista a chi fa uso di lenti a contatto, di auricolari, di telefoni cellulari.


Coniato nel 1960 da Clynes e Kline per indicare un uomo migliorato e potenziato al punto da riuscire a sopravvivere in un ambiente non terrestre, il termine cyborg è diventato un potente strumento di comprensione di ciò che caratterizza l’umano da sempre ma che oggi mette in discussione i paradigmi più consolidati. L’ambiguità di tale figura è pertanto propria della sua natura, come evidenzia assai bene Katherine Hayles: «se il mio incubo è una cultura abitata da postumani che considerano i loro corpi come accessori di moda, invece che fondamento del loro essere, il mio sogno è una versione del postumano che accetti le potenzialità delle tecnologie dell’informazione senza rimanere affascinato da fantasie di sconfinato potere e disincarnata immortalità, che riconosca ed esalti invece la finitudine come condizione dell’essere umano, comprendendo che la nostra vita è conficcata in un mondo fisico di estrema complessità, dal quale dipendiamo per la nostra sopravvivenza». (N.K. Hayles, How we became posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, The University of Chicago Press, Chicago & London 1999, p. 5).
L’umanità postumana è caratterizzata da una mente nomade che si muove fra diverse dimensioni dell’essere e del conoscere, che sposta di continuo i confini fra l’umano, il naturale e l’artificiale.


Il protagonista di “Con gli occhi di domani” – Spitz, un uomo che vorrebbe essere metodico nel lavoro e nella vita, diventato decisamente insofferente, malinconico e spaventato – è un cyborg avanzato perché dentro il suo cervello è stato implementato un microchip che gli consente di guardare gli sviluppi del presente.
Vede, sì, il futuro ma ne rimane angosciato e dice al medico, quasi urla, che in realtà ciò che vede è solo «un presente in decomposizione». Certo, perché non si può vedere il Tempo senza morire, il Tempo essendo Dio. E allora Spitz attua un gesto che dà il suo colore finale al film e che è un gesto antico, del quale parla anche uno dei miti più celebri della Grecità.
L’infosfera nella quale noi e il nostro presente siamo immersi è, infatti, ancora espressione del plesso greco, che sa coniugare arte e artificio, bellezza e macchine. Un’eco di tale congiungimento si ha nel tedesco künstlich che significa sia artistico che artificiale, in una parola: artefatto. Il termine che in greco gli corrisponde è mêchanê. (G. Raciti, «Mêchanê. Hegel, Nietzsche e la costruzione della “illusione”», Guida, Napoli 2000).

Anche nel film di Gazzola e L’Assainato l’arte si trasforma in artificio. L’«artificio alato» -mêchanê pterômatos- di Eschilo vola ancora sul paesaggio delle Reti, dei dispositivi, delle macchine contemporanee.

Alberto Giovanni Biuso
(docente di filosofia della mente all'Università di Catania)

P.S.: l'immagine del "post-uomo" che illustra questo saggio è composta da due foto scattate da Mario G e rielaborate in photoshop da Walter.


Last modified on Tuesday, 25 March 2008 15:56
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