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Bob Dylan - Tempest all'Arcimboldi

Written by  13 Nov 2013
Published in Musica
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Andrea Peviani ci offre un'appassionata recensione "da espertone" del concerto di old-Bob Dylan del 4 novembre scorso al Teatro degli Arcimboldi di Milano.

 


 

Anno dopo anno, ci stiamo abituando all'idea che invecchiare tocca anche a noi, come abbiamo visto fare ai grandi del rock con i quali siamo nati e cresciuti. Ma ora dobbiamo anche abituarci all'idea che, uno dopo l'altro, dovremo fare a meno di loro. Gli obituaries su Uncut e Mojo occupano tutti i mesi tre/quattro pagine, tra figure di primo e secondo piano. Poi se ne va uno come Lou, e letteralmente ti passa tutta la vita davanti, tutte le cose che devi a uno come loui... Andare a vedere Dylan pochi giorni dopo, allora, si carica di ulteriori nuovi significati. Sai già che, una volta tanto, tornerai ad essere uno della fascia d'età più bassa, lì in mezzo ai 50/60/70enni seduti all'Arcimboldi (in apertura foto del manifesto del concerto, NdR); quello che non sai è come sarà lui, su quel palco.

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Senza chitarra. Dylan senza chitarra. A gambe larghe davanti al microfono, le braccia un po' rigide come ad aiutare la voce, concentrato ed intenso come raramente negli ultimi decenni. Things have changed imposta la linea della performance, l'approccio classico ma un po' moderno del Dylan del terzo millennio, con questo suo strano modo di invecchiare con energia dignità sdegno verso il mondo. La band è organizzata attorno a lui con arrangiamenti studiati affinati, interiorizzati in decine di esecuzioni. L'opposto di decenni di scalette continuamente improvvisate, su e giù per un repertorio che non ha eguali, ogni canzone una camminata in equilibrio sul filo con frequenti scivolate giù nella rete.

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Non che questa regolarità di selezioni significhi ricerca di perfezionismo formale: l'interpretazione di Dylan è sempre del momento, quel momento che il pubblico si trova a condividere con lui. Si capisce soprattutto nei pezzi in cui si mette al grand piano, sempre in piedi ma di profilo, con le mani a riempire le canzoni come strumento guida, lui che non è certo un pianista... La band si adatta continuamente al suo piano, Charlie Sexton con gli occhi fissi sulle sue mani, e i pezzi migliori sono quelli in cui i musicisti capiscono tutto e l'interplay dà alle canzoni colori nuovi e meravigliosi. Succede con una Tangled Up In Blue privata dei suoi meravigliosi intrecci chitarristici per diventare un "nuovo" pezzo di questa "nuova" band, o con Scarlet Town, uno dei più bei brani dell'ultimo Tempest.
In altri pezzi i colori dell'esecuzione stanno un po' dentro e un po' fuori dai bordi, ma lo spettacolo è sempre magnetico, affascinante, con quel senso di pericolo che c'è sempre stato nei concerti di Dylan.

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A un certo punto un'illuminazione, che forse è solo mia, ma è vivida e suggestiva: vale la pena condividerla. Un po' sono i cappelli di Tony Garnier e Stu Kimball (basso e chitarra ritmica, sul lato sinistro del palco) come nelle foto di Music from Big Pink, un po' è Charlie Sexton che guida tutto e tutti con la sua chitarra, che suona un po' country, un po' blues e molto rock, e insomma mi ha fatto pensare al ruolo da direttore di Robbie Robertson; soprattutto è il legame strettissimo che si è creato tra Dylan e questi 5 musicisti. Sono loro The Band del XXI secolo.

Perché solo ora, come in quei primi anni di invenzione dal nulla della canzone rock as we know it, Dylan ha ritrovato un modo di suonare senza sforzo naturale autorevole, e bello. Il body of work degli anni dopo il 2000 non può essere paragonato a quello del ventenne iperattivo degli anni '60, ma insieme a quest'ultima fase del Never Ending Tour sta inventando dal nulla un modo avvincente di finire una vita vissuta nel cuore del rock. Sarebbe criminale non pubblicare un documento adeguato di questo Dylan live, subito, senza aspettare l'ennesimo recupero nelle Bootleg Series.

Brani vecchi e nuovi sono sullo stesso piano, il teatro e un pubblico quasi tutto di connoisseurs azzerano finalmente lo spaesamento di quelli che vogliono Mister Tamburino, 'Arrichein e Nochinon Evensdor. She Belongs To Me è sempre perfezione folk rock anche in questa versione asciuttissima. What Good Am I? prende forma e profondità nella semioscurità del palco, dalle dita di Bob sul piano ai suoni intensi e delicati magicamente intorno a lui. Ed è sorprendente il modo in cui anche le canzoni più recenti di Tempest vengono riarrangiate quasi riscritte, Duquesne Whistle che dà un po' di swing a Pay In Blood e prende in cambio un po' di fiammate rock-blues. Love Sick è indiscutibilmente uno dei vertici assoluti del Dylan moderno e chiude alla grande la prima parte.

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Dopo 20 minuti di intermission torna l'oscurità, ma io ci metto un po' a rientrare nella magia, Simple Twist Of Fate è splendida ma scivola via un po' così, e anche l'unica variante alla "solita" scaletta, l'antichissima A Hard Rain's A-Gonna Fall, sembra un po' tirata per i capelli. Il fuoco si riaccende proprio alla fine del pezzo, con un crescendo in cui Bob tira fuori la sua voce più forte e vera: l'ovazione dell'Arcimboldi è liberatoria.
Da qui in poi Dylan ci porta dove vuole, un'altra volta ancora, nei posti che lui ha scoperto e che ci hanno reso ciò che siamo. Intenso e melodico in una Forgetful Heart che chissà dove è andato a ripescare. E poi nudo autentico micidiale nel trittico finale che esalta la grandezza di Tempest: Scarlet Town, Soon After Midnight e soprattutto Long And Wasted Years, che dal vivo diventa un riff inesorabile e squillante come una campana che non suona a festa e nemmeno a morto, suona la vita esattamente come è.

I due bis tutti in piedi sotto il palco sono un altro geniale aggiramento per sfuggire al proprio mito. All Along The Watchtower anche lei guidata da quel piano ondivago, cancellati gli assoli blues delle chitarre e Blowin' In The Wind completamente reloaded, per la prima volta in grado di far dimenticare gli scempi delle Risposte strimpellate all'oratorio. Bob lascia il suo nascondiglio dietro il grand piano e col suo passo incerto di ultrasettantenne si piazza a gambe larghe al centro del palco e della sua (The) band, non un sorriso non una parola. Non si saluta se non c'è una fine, se non sai se e quando arriverà.

P.S. ...e quando ti sei sistemato anche questo Dylan nella tua personale galleria dei ricordi, con la sua scaletta fissa, la sua moderna The Band, Tempest come nuovo centro di gravità dell'universo dylaniano, passano 2 giorni e lui va a Roma e fa due date consecutive in cui cambia TUTTA la scaletta e spara le chicche più sognate. Leopard-skin pill-box hat, Don't think twice it's allright, Watching the river flow, BLIND WILLIE MCTELL (cazzocazzo), Queen Jane approximately, Highway 61 revisited, Just like Tom Thumb's blues, Most likely you go your way, EVERY GRAIN OF SAND (caaaazzo), Laic a rollistò, Rainy day women #12 & 35, It ain't me babe, Man in the long black coat, Positively 4th street, Girl of the north country, I don't believe you, Ballad of a thin man... Do you Mr. Jones? No, 'Arrichein non l'ha fatta. Ma niente di niente di Tempest. Solo a Roma. Poi a Padova e in Belgio ritorna la "solita" scaletta. Crazy old Bob...


Andrea Peviani


Un caloroso welcome ad Andrea, amico dai tempi del liceo (e d'infinite missioni concertistiche e successive 'risse' a colpi di "non capisci un c. di musica"), che con questo appassionato e documentatissimo pezzo debutta su Posthuman.
Speriamo di riaverlo presto, intanto continuiamo a seguire le sue riflessioni sulla musica che (ha) accompagna(to) la nostra vita sul suo arguto blog Conventional Records.

Posthuman ringrazia inoltre gli (sconosciuti) autori delle foto che illustrano l'articolo, che abbiamo selvaggiamente spigolato in rete ma riteniamo si riferiscano proprio al concerto milanese.

Last modified on Wednesday, 13 November 2013 20:17
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